(30 aprile 2017) Frontiers Rock Festival IV @ Live Club (Trezzo sull'Adda) - Day 2

Info

Provincia:MI
Costo:Vari
Rientro “forzato” alla base, qualche ora di sonno per stemperare gli effetti dell’acido lattico nelle “stanche membra” ed eccoci nuovamente all’accogliente e funzionale Live Club per assistere alla seconda parte del Frontiers Rock Festival IV.

L’apertura di oggi è affidata ai Cruzh, una delle tante “novità” provenienti dall’inesauribile fucina scandinava, autrice di un gradevole albo autointitolato. La prestazione dei nostri è più che dignitosa, ma le loro canzoni impregnate di un AOR “classico” e raffinato dal vivo non riescono a “decollare” in maniera definitiva, rimanendo ancorate a una godibilità abbastanza effimera e superficiale. Piace la naturalezza della band e la sua discreta disinvoltura sul palco, mentre credo che ai loro pezzi manchi ancora qualcosa per fare davvero la “differenza”.
Da segnalare l’ardore radiofonico di “In n’ out of love”, il romanticismo di "Stay” e il garbato dinamismo del singolo "First cruzh”. Acerbi.

Con i Lionville il livello tecnico/emozionale s’impenna in modo sostanziale, confermando l’impressione che il passaggio da “progetto” a “gruppo” sta procedendo nella direzione giusta. Il nuovo lavoro ha forse risentito in minima parte di questa “transizione”, ma è davvero difficile trovare dei difetti “oggettivi” a “I will wait”, “A world of fools” e “Bring me back our love”, autentiche leccornie per tutti i palati “adulti”.
Pilotata dalla voce cristallina di Lars Safsund (tutto meno che un freddo “turnista” ...) la band ostenta una coesione e un’armonia invidiabile, andando a stimolare ulteriormente i sensi della platea con brani come “No turnin' back” e “Power of my dreams” (cantata da un Lionetti piuttosto emozionato), prelevati da un repertorio in pratica inattaccabile. L’enorme affettuosità con il quale i Lionville sono stati accolti rappresenta un importante motivo d’orgoglio per chi crede fermamente, e da parecchio tempo, nelle qualità della “scuola italica” del genere. Gloriosi.

Dopo tanto “sentimento”, arriva il momento di aggiungere un pizzico di superiore “carnalità” a questo pomeriggio meneghino e sarebbe ipocrita non ammettere che la prima cosa che colpisce negli Adrenaline Rush è l’avvenenza e la sensualità di Tave Wanning, che oggi si offre agli occhi smaniosi della platea maschile come una sorta di Shakira del metal melodico.
Tra balletti, ammiccamenti e scuotimenti di bacino emergono “anche” le buone capacità tecnico/interpretative di una cantante abbastanza convincente, migliorata un po’ in tutti gli settori espressivi rispetto al recente passato.
La maggiore aggressività di “Soul survivor” appare congeniale a uno show diretto e trascinante, che, mescolando anthem “nuovi” e “vecchi”, ha in “Adrenaline”, “Love like poison”, “Generation left behind” e “Girls gone wild” i suoi momenti maggiormente efficaci.
Segnalando, infine, la discreta tensione emotiva di “Sinner”, non rimane che auspicare in un’ulteriore crescita artistica degli Adrenaline Rush, che sia in grado di superare i pregiudizi e gli aspetti puramente “estetici” della questione … una “roba” difficile, invero, ma non impossibile. Intrattenitori.


Ero curioso di vedere Kee Marcello in un’ambientazione di questo tipo e devo dire che l’impressione che ho ricavato dalla sua prova ha fornito indicazioni un po’ contrastanti. Tecnicamente sempre brillante e vocalmente piuttosto efficiente (senza strabiliare …), il nostro mi sembra voler sfruttare eccessivamente il suo “passato” negli Europe e in una maniera non sempre pienamente opportuna.
Passino le ottime versioni di “More than meets the eye” e della “oscura” “Tower's callin'”, mentre meno convincente appare una “Superstitious” privata del suo carattere pomposo (con tanto di break reggae, divertente, magari, e tuttavia parecchio “stridente” …), così come sembra decisamente fuori luogo l’inclusione nella scaletta di una gigiona “The final countdown”.
Molto meglio, a questo punto, attingere dall’ultimo albo solista “Scaling up”, qui ottimatamene rappresentato dalla sua title-track, “Soldier down”, “Don't miss you much” e dalla particolarmente intrigante “Black hole star”, tutto materiale ben congeniato nell’ottica di celebrare la tradizione dell’hard-rock con la giusta dose d’intraprendenza. Pavido.

Il momento è arrivato … ci sono voluti venticinque anni di attesa e anche se nel frattempo sono successe molte cose, l’ansia che mi attanaglia per l’esibizione degli Unruly Child è una sensazione abbastanza simile a quando consumavo il loro disco d’esordio fantasticando su come sarebbe stato assistere a un loro concerto.
Per tante ovvie ragioni, il Figlio Indisciplinato di oggi non è più “esattamente” quello del 1992, ma ritrovare gli stessi protagonisti sul palco del Live Club è un’emozione davvero intensa, per il sottoscritto e per i molti fans del gruppo che stasera gli hanno tributato manifestazioni d’affetto puro e incondizionato, sorprendendo probabilmente pure una Marcie Free visibilmente commossa durante la sua immacolata prestazione.
La scaletta, che attinge a piene mani da quel prodigioso debutto, è un concentrato di raffinatezza, sacralità e forza espressiva e dimostra come per catalizzare l’attenzione del pubblico non siano sempre necessari atteggiamenti forzatamente istrionici e “fuochi d’artificio”.
E’ stato sufficiente un repertorio straordinario e l’enorme carisma di musicisti maturi e competenti per ipnotizzare con disarmante semplicità la platea, attratta irrimediabilmente da un’elegante e sobria Free (l’unico “vezzo” concesso è un leggio con un tablet in funzione di “gobbo” …), dalla sua voce pregna di pathos e da strutture armoniche pervase dalla rara intelligenza e sensibilità esecutiva di Bruce Gowdy, Guy Allison, Larry Antonino e Jay Schellen.
Hard-rock (quello più variegato e iridescente di certi Led Zeppelin, in particolare …), AOR e scorie prog alimentano un percorso sonoro assolutamente privo di momenti interlocutori, ed è per questo che non ha senso, nemmeno in questa particolare circostanza, affannarsi nella ricerca di eventuali “menzioni d’onore” … lo spettacolo offerto dagli Unruly Child è un autentico balsamo per l’anima e a chi se l’è perso, beh, dico solamente che si è veramente precluso un’occasione importante di regalarsi una scarica sensoriale imperiosa, pura e totalizzante. Indimenticabili.

Con gli L.A. Guns il clima cambia di nuovo in maniera perentoria (ed è anche questa la forza della kermesse ...): bando alle delicatezze e via libera al glam-metal più irriverente e selvaggio, interpretato da due autentici specialisti degli eccessi “stradaioli” come Phil Lewis e Tracii Guns. C’è poco da fare ... anche se supportati adeguatamente da un eccellente manipolo di provetti “disadattati”, sono loro due i veri mattatori dello show.
Il primo, voce sempre intensa e scorticante (e appena filo di “pancetta” ...) e il secondo che non perde una stilla di quella torrida furia chitarristica che ha caratterizzato un capolavoro di fresca brutalità sonora come “L.A. Guns” e ottime esibizioni più decadenti e variegate come “Cocked and loaded” e “Hollywood vampire”.
A “vincere” stasera è l’attitudine ruggente e ruvida dei californiani, caricati “a pallettoni” per dimostrare che i tempi delle “fanfaluche” (album di cover, separazioni e riavvicinamenti vari ...) sono definitivamente finiti e i due sono pronti ancora una volta a “mettere a ferro e fuoco” la scena.
Il brano nuovo incluso in scaletta, “Speed”, fa ben sperare, mentre ad esplodere dritto al centro dei sensi sono le dinamitarde versioni di “No mercy”, “Electric gypsy”, “Bitch is back”, “Sex action” e “One more reason”, e a completare l’opera di viscerale suggestione ci pensano la pulsante “Over the edge” (qualcuno la ricorderà nella soundtrack di “Point break” e qui Tracii la introduce suonando la sua chitarra con l’archetto da violino ... mmm ... non lo faceva già qualcun altro?), la Crue-ianaMalaria”, un’accattivante “Never enough” (con tanto di accenno all’immortale "Hells bells") e la trascinante “Rip and tear”, che chiude una performance pregna di catartica fisicità. Impetuosi.

Analogamente a quella di tanti protagonisti del metal melodico ottantiano, anche la storia dei TNT è stata caratterizzata da tentativi di “sopravvivenza” spesso abbastanza discutibili.
Autori di tre dischi da incorniciare, pur nelle loro diverse sfumature espressive (il roccioso “Knights of the new thunder”, il manifesto di class-metal nordico “Tell no tales” e il maggiormente magniloquente “Intuition”), i nostri hanno solcato con una certa “fatica” gli anni novanta, arrivando a frequentare tra alti e bassi le frenesie del terzo millennio.
Non è un caso che in periodi di prepotenti ritorni “nostalgici” anche i norvegesi abbiano ripreso a valorizzare il loro “passato” e se oggi, complice anche il trentesimo compleanno di “Tell no tales” (e non quello di “Intuition”, come annunciato dallo speaker della manifestazione, subito corretto da Tony Harnell), la scaletta esclude quasi del tutto i frammenti più “temerari” (e controversi ...) della loro corposa parabola artistica, l’intento di recuperare il consenso tra i vecchi fans (magari pure qualcuno di quelli che ricorda bene altri antichi e devastanti show meneghini!) è parecchio evidente.
Una scelta che mi sento comunque di sostenere, dacché è innegabile che fino ad oggi Ronni Le Tekrø (che stasera mi sembra una sorta d’interpolazione estetica tra Punky Meadows e Uli Jon Roth) e i suoi pards, il loro meglio l’hanno sicuramente fornito in brani come “As far as the eye can see”, “Child's play”, “Northern lights”, “10,000 Lovers (In one)”, “Everyone's a star”, “Forever shine on” e “Intuition”, puntualmente e magistralmente eseguiti, lasciando poi che sia "Seven seas” a riportare la memoria alle origini “vichinghe” (con il batterista abbigliato in maniera consona ...) della band.
Harnell (tornato nei ranghi dopo la parentesi microfonica gestita dal bravo Tony Mills) dimostra di possedere ancora uno spettro vocale forgiato nell’acciaio (ma forse difetta un po’ in capacità comunicative ...) e Ronni sciorina il suo fantasioso e ficcante guitar-work (esibito anche in un momento di “gloria personale” ...) in maniera sicura e disinvolta ... l’attesa per vedere come si orienterà il nuovo album è già iniziata. Ritrovati.

Finita la scorpacciata di musica, metabolizzato il turbinio di emozioni, con gli effetti dell’adrenalina che si affievoliscono (dando via libera agli effetti dello spossamento ...), terminiamo questa disamina con alcune brevi considerazioni finali:

• Il rock melodico è vivo e vegeto e il suo pubblico, anche se forse non esattamente “imberbe”, è costantemente caloroso e affezionato.
• A vedere com’è preso d’assalto lo stand della Frontiers, non si capisce perché si parli sempre di difficoltà del mercato discografico e di crisi nella vendita dei Cd.
Rapetti in fondo al suo cuore di “rude metallaro” nasconde un animo “nobile” e, per amicizia e “dovere professionale”, supera i rischi di un attacco iperglicemico con disinvoltura e stoicismo (e alla fine si compra addirittura un disco degli Eclipse ... grande Sergio!).
• L’instancabile spettatrice-ballerina (scandinava, credo …), ormai un’habitué di questi Festival, che allieta i nostri occhi anche durante i cambi palco, è sempre un bel corollario alla manifestazione.

Non rimane che attendere con trepidazione la nuova edizione, nella speranza di vedere sempre più chic-rockers italici, anche stavolta battuti in numero dai loro colleghi stranieri. Rock on!
Report a cura di Marco Aimasso

Ultimi commenti dei lettori

Inserito il 10 mar 2018 alle 13:56

Ciao Marco , Hai messo in parole quelli che ho vissuto . 👍 bravo !

Inserito il 11 mag 2017 alle 10:30

Marchino è una garanzia!! come il FRR :D

Inserito il 10 mag 2017 alle 16:56

grande report, fatto con passione e competenza, bravo Marco!