Gotthard: we all need to believe!

Info

Gruppo:Gotthard
Mi scuserete innanzitutto se questa intervista non avrà il grado di precisione e di completezza che normalmente ci si dovrebbe aspettare da pezzi del genere. Quando si parla di Gotthard, una delle mie band preferite da più di dieci anni, l'entusiasmo e l'eccitazione prevalgono sempre e faccio davvero fatica a comportarmi da giornalista. Ecco perché quello che state per leggere non è tanto un elenco pedante di domande e risposte, quanto una piacevole chiacchierata tra i due mastermind del gruppo Steve Lee e Leo Leoni, e un loro fan italiano di vecchia data. Succede così ogni volta che sono io ad intervistare la band (Graz, la prossima volta ti conviene mandarne un altro!) e francamente non so proprio che cosa farci. Se non altro, spero di essere riuscito a catturare al meglio l'atmosfera di allegria e spensieratezza che si respirava all'interno del “Mosaicò”, elegante lounge bar nel centro di Gallarate, eletto a sede dell'incontro causa un successivo impegno dei due in una radio poco distante. Tra un boccale di birra e una battuta di Leo (da sempre autentico mattatore quando si tratta di sparare cazzate!), siamo comunque riusciti a toccare almeno due degli argomenti all'ordine del giorno: il nuovo album “Need to believe”, che sarebbe uscito due mesi dopo per Nuclear Blast (l'intervista si è svolta a luglio) e l'imminente tour europeo, che in Germania si sarebbe svolto in compagnia niente meno che degli Europe...

.Allora ragazzi, comincio col farvi i complimenti perché “Need to believe” mi sta piacendo davvero un sacco! Premetto che devo ancora ascoltarlo bene, però mi pare che rispetto al precedente questo sia un lavoro più “aperto”, più melodico. Steve, tu due anni fa mi dicevi che ci sono due anime nella band, quella più hard e quella più AOR style. Ecco, mi sembra che quest'ultima su “Need to believe” sia venuta un po' più fuori.

SL: E' così in effetti...
LL: Facciamo sempre un album a testa: un anno tocca a me e un anno a lui... (ride NDA)
SL: Credo sia una cosa molto spontanea. Di solito non ti metti mai attorno a un tavolo a pensare a che disco fare. Non ti chiedi se hai bisogno di una ballata, di un pezzo veloce, un pezzo per la radio che dev'essere corto e senza chitarre altrimenti non te lo suonano... E' un insieme di cose che succedono, che di volta in volta ti portano in una direzione piuttosto che in un'altra. Poi magari c'è un produttore che ti dà un tocco un po' più “moderno” in certe canzoni; oppure la melodia che viene fuori in certe ballate (e in questo caso sono io il principale responsabile, dato che mi piace cantare melodie), poi c'è Leo, che è più attaccato ad un rock viscerale, in stile AC/DC tanto per capirci. Insomma, sono tutte sinergie che si incontrano, vari mondi che si fondono per creare qualcosa di melodico sì, ma con le palle! E' un po' il nostro segreto questo, il nostro punto di forza...
LL: Io non penso invece che questo sia un disco più melodico di altri. Semmai si può dire che l'insieme delle diverse componenti è ora più bilanciato. Abbiamo infatti trovato un produttore che ha convinto tutti ad usare le voci al massimo, valorizzando le doti di Steve, aggiungendo tracce... insomma, la voce usata come un vero e proprio strumento. Ovvio, ci sono delle cose più dure di altre, parti in cui l'anima rock esce di più, ma non parlerei di disco “cupo”, nella misura in cui nemmeno “Domino Effect” lo era. A mio parere, il dark è tutta un'altra cosa. Quindi, io quando ascolto questo disco non ci sento i Journey; al massimo sento una rock band con un cantante tanto bravo, e forse anche di più, di quanto lo è Steve Perry...
SL: Adesso non esageriamo, se no qua... (ride NDA)
LL: Eh, ma la realtà è questa! Comunque questo è un disco rock come Dio comanda. Lo è nel 2009, e lo sarà nel 2010. E questo sicuramente grazie a questo personaggio che è riuscito ad unire le due cose e ha trovato la quadratura del cerchio...

Chi è esattamente costui?
LL: Si chiama Rich Chycki, è canadese e ha un curriculum di produzioni che varia da Pink ai Rush, dagli Aerosmith ai Foo Fighters, e certo sa che cosa vogliono dire sia le chitarre sia le voci...
SL: Tra l'altro il disco è stato mixato nello studio dei Rush, perché è dove lavora lui di solito. E' lo studio di proprietà del chitarrista dei Rush Alex Lifeson...

Premetto che a me sono piaciuti tutti i vostri dischi... oddio, “Homerun” in realtà non molto ma è una cosa che vi avevo già detto...
SL: E di “Open” cosa dici?
No, “Open” mi piace già di più. Certo, non è un capolavoro ma secondo me è meglio di quello dopo, che era molto più pop. “Open” invece possedeva ancora quello spirito del vostro disco unplugged e l'ho quindi trovato più fresco, più genuino...
SL: E' interessante sentire queste cose. Quello era un periodo in cui abbiamo ascoltato troppa gente, gente che, produttore per primo, ci diceva di fare determinate cose perché sarebbero andate più in radio, ecc. Alla fine ci siamo guardati in faccia e ci siamo accorti di non essere più la stessa band che eravamo prima. Eravamo in tour con dieci chitarre e quattro bassi, e ogni canzone aveva un altro sound. Per cui con “Lispervice” abbiamo voluto lasciar perdere tutto e riprendere a fare cose che ci piacessero davvero.

E' proprio qui che volevo arrivare. Quattro anni fa quel disco ha segnato il grande ritorno ai fasti del passato e ha contribuito anche a far avvicinare molti nuovi fan alla vostra musica. Si tratta probabilmente del vostro miglior lavoro e penso che difficilmente si potrebbe dire il contrario. Poi però è uscito “Domino Effect”, e allora alcuni hanno storto il naso, hanno iniziato a dire che era diverso, che non era bello come il precedente, ecc. E' sempre la solita storia: quando una band che ha fatto un disco che è piaciuto non lo rifà uguale, c'è sempre qualcuno che grida allo scandalo...
LL: Sai cosa? Se invece il disco è uguale a quello prima dicono: “E' una copia del precedente, è una merda”. (ride NDA). Comunque meno male che la gente dice così, se non altro dimostrano di avere ascoltato il disco! Ma la risposta al perché un disco è più solare e uno invece un po' più cupo è molto semplice: è che quando scrivi le canzoni non sei sempre nello stesso stato d'animo! E allora un giorno tiri fuori un pezzo allegro e il giorno dopo un pezzo triste. Le canzoni escono così, non puoi certo fare un pezzo su tua figlia che soffre e suonarla in Re maggiore! Vasco ha scritto “Sally” e non mi sembra proprio una canzone allegra! Beh, c'è qualcuno che sputa addosso a “Sally”? Non mi pare proprio! Al massimo qualcuno potrà dire di preferire “Albachiara”...
Quindi, “Domino Effect” può suonare triste perché così eravamo quando l'abbiamo scritto. Tutto d'un tratto dovevamo fare il disco, era una roba del tipo “Dev'essere pronto ieri!” (Risate generali NDA).
SL: Guarda, l'altro giorno a Monaco una giornalista mi ha detto che quando è uscita “What I like”, sul momento non le era piaciuta per niente, perché aveva i violini, era diversa dal nostro solito stile, ecc. Oggi invece è il suo pezzo preferito. E' bello sentire queste cose perché ti fa capire come qualsiasi disco abbia bisogno di tempo per essere assimilato a dovere. E purtroppo questo è il problema di oggi: che la gente non ha più tempo di ascoltare i dischi! Uno spesso rimane deluso semplicemente perché ha sentito un album magari non più di tre volte, ma nonostante questo pretende di ritrovare le stesse sensazioni positive che ha provato in passato per altri lavori di quel gruppo. E' una cosa che succede anche a me: metto su il nuovo dei Queensryche, non mi convince più di tanto, vorrei che fosse uguale a “Operation: Mindcrime” mentre se lo ascoltassi un po' di più potrebbe piacermi. Oggi la gente è inondata da troppa musica, non c'è più il tempo di mettersi lì con calma ad ascoltare qualcosa. E nemmeno le radio aiutano: ricevono il singolo, e quello per loro è il disco! Ci sono altri dieci pezzi molto più interessanti? Pazienza, loro non li passeranno mai perché non sono nel computer...

Da questo punto di vista, mi spiace dirlo, ho apprezzato che abbiate registrato un disco da 45 minuti. In questo modo si ha la possibilità di fruirlo più facilmente...
SL: Abbiamo registrato 14 pezzi in tutto. E quelli che abbiamo lasciato fuori sono altrettanto validi...
LL: Già che parliamo di Queensryche: loro non hanno mai fatto un disco uguale all'altro. Sai cosa? Non è che ci sono molte band che hanno tempo di registrare tanti dischi! Se tu guardi a tutte quelle che sono resistite nel corso degli anni, puoi vedere che c'è stata un'evoluzione. Prendi i Van Halen: il primo disco non ha niente a che vedere col secondo, e nemmeno col terzo. Poi è arrivato “1984”, diversissimo, eppure loro erano ancora lì, e sono diventati milionari (anche se forse lo erano già anche prima). Noi siamo in giro da vent'anni, quindi mi sembra ovvio che sia così anche per noi...
SL: E poi la musica rispecchia anche come ti senti tu, i cambiamenti che hai... noi a 19 anni mica eravamo come adesso!

Senti, questa ve l'avranno già fatta tutti...
SL: Beh, risponderemo diversamente allora (ride NDA)!

Ok! “Need to believe” è il titolo del nuovo disco: in che cosa c'è bisogno di credere, a vostro parere?
SL: E' un messaggio abbastanza chiaro. E non sottintende un significato religioso, come ho chiarito in Svezia due giorni fa: non è che improvvisamente siamo diventati tutti fan di Ratzinger. E' un atteggiamento di positività, l'idea che si può realizzare l'impossibile se veramente ci si crede, se veramente si ha fiducia in sé stessi. E' una cosa che può essere applicata in tutti i campi, nella musica ma anche per chi è malato di cancro: è provato scientificamente che se tu sei malato ma ti autosuggestioni al punto da dire “Guarirò”, allora puoi davvero guarire. E' un messaggio positivo, che speriamo possa dare un po' di fiducia alla gente, che possa davvero convincere del fatto che se vuoi, puoi davvero riuscire a fare quello in cui credi, fino al punto di arrivare a stritolare un sasso nella mano, come si vede nella copertina...
Ah, ecco! Mi stavo proprio chiedendo che cosa ci fosse in quella mano...
LL: Già, non sono le palle del nostro manager! In effetti però... (risate generali NDA)
Vedi, noi abbiamo sempre cercato di dire certe cose, di puntare il dito su determinati problemi... ad esempio, sempre su questo disco c'è “I don't mind” che è il classico pezzo “mi sono rotto i coglioni faccio quello che voglio io!”. Io penso che il rock and roll come lo vogliamo noi non è quello fatto sul cliché del “facciamo casino” ma è gioia di vivere. Il rock non è per forza di cose farsi le canne e andare con le groupie... oddio, magari per qualcuno è così e va bene, ci macherebbe! Però per noi esprime proprio uno stile di vita, un piacere di vivere, di stare al mondo e di vedere anche le cose belle. Se poi qualcuno non le vede più perché dice che c'è la crisi, che siamo tutti nella merda e che il nero può diventare ancora più nero, beh, questo non è proprio il massimo.
La vita è bella, sono gli altri che la vedono in maniera sbagliata! Quando tu vieni al mondo non pensi ai problemi, sei un bambino e tutto quello che vuoi è divertirti e gioire. E' tutto quello che c'è attorno che ti impedisce di fare determinate cose...
SL: Per carità, i problemi ci sono. Ci sono certe situazioni per cui pensare positivo è veramente duro...
LL: E' vero, però delle due l'una: o mi chiudo in casa a disperarmi e a dire che non so come fare, oppure provo a fare qualcosa e magari qualcosa succederà. Metti che hai un bambino portatore di handicap: cosa fai, gli spari in testa perché tanto non guarirà mai? No, è mio figlio, è bello così e lo tirerò grande! Oppure pensa a Ray Charles! La sua biografia lo insegna: era cieco e nero, nessuno gli dava una lira, e invece guarda cosa ha fatto...
SL: If you believe you can do it...
LL: Michael Jackson ha provato a diventare bianco e non ce l'ha fatta, però... (risate generali NDA)

Vabbeh, cambiamo argomento che è meglio. E' una cosa che non vi ho mai chiesto e che mi incuriosisce molto: come vi preparate per un tour?

SL: Mah, da un lato c'è la preparazione fisica e mentale che non è mai facile: ognuno sa quali sono i suoi margini di miglioramento, per cui si cerca di fare tante prove e di essere il più possibile pronti. Poi si prova a trovare le canzoni giuste per costruire uno spettacolo che sia dinamico, che non sia semplicemente il suonare una canzone dopo l'altra modello juke box. Ci preoccupiamo che ci sia un assolo di batteria, uno di chitarra, poi le luci, ecc. Non è mai una cosa facile mettere in piedi una cosa di questo tipo e rimane poi il fatto che una volta che il tour è cominciato ti riscopri a cambiare delle cose suonando perché ti accorgi che alcune cose non funzionano. E' un'evoluzione continua, insomma.

Pensate voi anche alle luci?
SL: Diciamo che diamo delle idee. Ci sono delle ditte che vengono con delle proposte e noi le vagliamo. Oppure magari ci rendiamo conto noi suonando che, magari per colpa del posto, certe cose non si possono fare. Questa cosa delle luci è importante: se fai una ballata con le luci alla “Stayin' alive” non va bene, gli effetti si devono combinare nel modo giusto. E' un lavoro grosso che, come a teatro, necessita parecchie prove...

Volevo chiedervi una cosa che ho in testa da un po' di tempo: negli ultimi anni, nonostante i vostri spettacoli si siano sempre assestati su livelli altissimi, avete fatto ben poche modifiche alla vostra setlist, suonando quasi sempre le stesse canzoni. Considerando che ci sono band come Pearl Jam, Radiohead, o artisti come Bruce Springsteen, che suonano ogni sera cose diverse, rendendo ogni show unico e particolare, non sarebbe bello anche per voi seguire questo modello? Dopo tutto avete tutta una serie di pezzi che non suonate da un sacco e che molti fan sarebbero ben contenti di ascoltare...

LL: E' interessante il discorso che stai facendo, ma noi rispetto a questi personaggi che hai nominato facciamo molte più date in Europa, tra cui poi ci sono i festival ecc. Non sarebbe possibile per noi cambiare canzoni tutte le sere con tutti questi concerti da fare. E poi, tornando agli artisti che hai nominato, io sono sicuro che anche loro hanno le scalette preparate. Ne metteranno giù più di una, e poi le alterneranno a seconda delle occasioni...

Mi spiace contraddirti, ma uno come Bruce Springsteen proprio no: spesso e volentieri addirittura si diverte a suonare pezzi diversi da quelli previsti per quella sera...
LL: Beh, Springsteen effettivamente non so. Io ti parlo di band con le quali noi abbiamo fatto dei tour, come ad esempio Bon Jovi: lui aveva delle setlist leggermente diverse che alternava ogni tanto.
SL: C'è anche un altro discorso da fare: se sei in giro con una crew, loro sono abituati al fatto che lo spettacolo è in un certo modo, ha determinati momenti per cui loro sanno come comportarsi, con le luci, i cambi di strumento, ecc. Se tu stravolgi lo spettacolo ogni sera c'è il rischio che impazziscano! Comunque è una cosa interessante, ne stavamo parlando anche noi di poter avere la possibilità di cambiare qualcosa ogni tanto: magari una sera suonare un pezzo e l'altra sera un altro. Penso che sarebbe una cosa piacevole... in effetti abbiamo più di cento canzoni tra cui scegliere...
LL: Dovresti venire a vederci più spesso però: l'anno scorso durante un festival in Germania abbiamo aperto con “Starway to heaven”...

Davvero?
LL: Sì, ogni tanto ci piace fare queste gag, ma normalmente la scaletta rimane quella. Noi non vogliamo deludere i fan del posto perché sono loro la maggioranza rispetto a quelli che ci seguono per più date. Non mi interessa se c'è della gente che quelle canzoni le ha già sentite: io devo accontentare il pubblico che è lì quella sera! Poi è logico che i gruppi come noi che sono in giro da vent'anni si rompono le palle di suonare certi pezzi tutte le sere! Prova a chiedere ai Deep Purple se sono contenti di suonare Smoke on the water... immagina un po' cosa ti risponderanno! Eppure devono farlo!
Per carità, a me piacerebbe tantissimo accontentare tutti, ma devo essere sincero: preferisco dare il massimo per soddisfare le persone che sono lì a vederci solo per una sera.

Ho visto che sarete in tour con gli Europe in Germania: mi dite come è venuta fuori questa cosa?
LL: Penso che sia una bella accoppiata davvero. Visto che siamo in un periodo di crisi, volevamo dare alla gente un bel motivo per spendere i loro soldi! Al giorno d'oggi, visto che non ce ne sono tanti, non è proprio semplice decidere dove investirli In America sono anni che i gruppi storici vanno assieme in due o tre, a formare dei package molto bene assortiti. Abbiamo pensato di farlo anche noi: in questo modo un ragazzino può andarsi a vedere due band che conosce bene invece di dire: E questi qui che suonano prima chi cazzo sono?” (ride NDA).
Lo avevamo già fatto coi Deep Purple lo scorso anno, poi ora siamo stati fortunati: gli Europe usciranno col nuovo disco nel nostro stesso periodo (e molto probabilmente sarà un ottimo disco, conoscendo i personaggi), per cui sarà indubbiamente un grosso successo e una grande occasione per tutti quelli che verranno!

Indubbiamente! Farò davvero di tutto per esserci a Monaco... Ultimissima domanda: il nuovo disco si apre con “Shangri-la”, che è un pezzo piuttosto cadenzato e melodico, meno immediato rispetto agli opener degli ultimi due dischi. E' una scelta che ho trovato interessante: mi spiegate che cosa ci sta dietro?
SL: Guarda, te la faccio breve. Negli ultimi anni abbiamo lavorato con questo duo svedese (Thomander e Wickstroem, con i quali i Gotthard hanno scritto pezzi da novanta come “Lift u up”, “All we are”, “Domino effect” e altre perle contenute negli ultimi album NDA), con cui si è creata una sinergia molto interessante. Io volevo andarci anche questa volta, ma Leo era impegnato con la preproduzione e cose varie... alla fine, all'ultimo momento, ho deciso di partire da solo e così un fine settimana sono andato una corsa da loro a Stoccolma. Mi hanno fatto sentire alcune idee, cose appena abbozzate, e nel giro di un pomeriggio abbiamo registrato quattro demo, una delle quali, “Shangri-la” appunto, è venuta fuori in maniera davvero facile e naturale.
Tornato a casa, ho fatto sentire il tutto alla band, e anche loro si sono trovati d'accordo sul fatto che quella fosse la canzone migliore. Vedi, lavorare con queste persone è davvero interessante: sono persone aperte, tu butti là delle idee e loro le elaborano assieme a te creando qualcosa di valido ogni volta...
LL: Con loro abbiamo scritto anche “Where is love when it's gone”, che a mio parere è uno dei nostri pezzi più belli in assoluto. Mi spiace solo che sia passato via così in fretta, in pochi se ne sono accorti. Eppure, tu che sei fan di Bruce Springsteen, immagina questo pezzo cantato da lui: farebbe il giro del mondo...

Si conclude qui la parte “ufficiale” dell'intervista: sono seguiti alcuni minuti di risate e convenevoli vari, durante i quali Steve e Leo hanno ancora una volta avuto occasione di dimostrarsi due personaggi totalmente alla mano e alieni da qualsiasi comportamento in stile “rockstar”. Per quanto mi riguarda, non posso che rimandarvi all'ascolto di “Need to believe”, certi che anche chi ha avuto qualcosa da ridire su “Domino Effect”, non potrà non rimanere entusiasta di questo lavoro. E poi ci si vede ad ottobre...
Intervista a cura di Luca Franceschini

Ultimi commenti dei lettori

Non è ancora stato scritto nessun commento per quest'album! Vuoi essere il primo?