Undici anni sono molti, tanto da sembrare, soprattutto per chi attende con vivida trepidazione, un’intera
Vita, ma l’
Amore per i propri miti rimane incrollabile, almeno quanto la
Speranza di poter provare ancora una volta quelle emozioni che per i
musicofili rappresentano un autentico balsamo per l’anima.
Mi rendo conto che non si tratta di una maniera particolarmente “originale” d’introdurre un disco, lungamente atteso, che s’intitola “Life, love & hope” e tuttavia la ritengo abbastanza adeguata per interpretare i sentimenti dei fedelissimi
fans dei
Boston di fronte all’ennesimo ritorno dei loro beniamini, capaci di consegnare al mondo due
quintessenziali capolavori dell’arte sonora, un’ottima replica a tale magnificenza e due dignitosi esempi (meglio il primo del secondo, invero …) di come si possa ancora apparire credibili anche quando un precedente come “More than a feeling” (e non solo …) incombe come una fatale ed eterna “croce & delizia” sulla propria storia professionale.
Ebbene, diciamo subito che, anche tentando di mitigare l’inevitabile “effetto nostalgia”, considero quest’
album una delusione piuttosto cocente, per contenuti e modalità espositiva, una versione purtroppo “sbiadita” e stagnante di un modo unico di trattare la materia melodica, complicato da una produzione fredda e asettica che riduce ulteriormente l’efficienza di una ritmica oltremodo “sintetica”.
Questo non significa necessariamente trovarsi al cospetto di un prodotto “orrendo” … l’ingegno e il talento di Tom Scholz, ormai sempre più “uomo solo al comando” della situazione, sono talmente vertiginosi da non consentire l’utilizzo del succitato aggettivo nemmeno nel caso in cui si trovasse eventualmente ad operare in una circostanza alla
Killer Karaoke (avete presente? … il demenziale programma televisivo con Steve-O, dove i concorrenti si esibiscono “distratti” da varie forme di “tortura” …), e ciò nondimeno l’impressione che “Life, love & hope” non possa essere
esattamente annoverato tra i momenti di massima ispirazione dell’ex-ingegnere della Polaroid è netta e pressante.
Addentrandoci brevemente nel programma, cominciamo dalle “cose buone”: “Heaven on Earth”, una prelibatezza sonica ottimamente interpretata da David Victor (da riscoprire i suoi Velocity, una “chicca” da intenditori …) e arricchita da un cameo Louis St. August dei Mass, “The way you look tonight”, uno
slow number denso di
pathos emozionale marchiato dalla laringe “educata” di Tommy Decarlo, “Sail away”, un pezzo enfatico e melodrammatico in cui è il compianto Brad Delp a duettare con Kimberley Dahme, e poi la terna “Didn't mean to fall in love”, “Someone” (entrambe con il prezioso contributo dello storico cantante del gruppo) e “You gave up on love”, materiale già presente in “Corporate America”, (vagamente) rimaneggiato per l’occasione.
Il resto è tranquillamente classificabile alla categoria “piacevole routine”, tra una discreta “If you were in love” (con la stessa Dahme a non convincere del tutto nel ruolo di “romanticona” …), una decente
title-track e una diffusa sensazione d’inoffensività sensoriale.
Troppo poco, in definitiva … anche per chi è disposto a perdonare qualche piccolo “appannamento” ai suoi idoli … un vero peccato.
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