(07 novembre 2019) King Diamond @ New York (USA)

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Cara, stasera esco a teatro”.

Sul viso di mia moglie è stampato un grosso punto interrogativo. Mi accorgo di essere stato eccessivamente laconico: non è chiaro con chi io esca, chi io vada a vedere e cosa io faccia al termine dell’evento. Il sospetto di una relazione extraconiugale comincia a farsi strada e, al passare dei secondi, la tensione è sempre più palpabile, finché mi decido a dire chi è di scena. All’improvviso, tutto torna alla normalità e lo sguardo di mia moglie diventa fra il commiserevole e il rassegnato. Ogni sospetto è fugato. Già, perché stasera non c’è Shakespeare a teatro (né io esco accompagnato, ma questo poco conta…) ma King Diamond e tutto il suo carico di orrori.

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Dopo dodici anni di assenza, Re Diamante è pronto a uscire con un nuovo album. Per ingannare l’attesa, ha scelto di fare un tour in Nordamerica per ripercorrere le tappe della sua carriera solista e far rivivere le storie di morti, spiriti e anime possedute raccontate nei suoi album. La serata è perfetta: siamo a Flatbush, una zona di Brooklyn fatta di case basse e in stile vittoriano, ben lontani dai grattacieli opprimenti di Manhattan. Tira un vento sferzante e pioviggina incessantemente da un paio d’ore. La strada principale è ben illuminata ma, nelle vie secondarie, l’oscurità prevale e le fioche luci provenienti dalle finestre gettano ombre sinistre. Girato l’angolo, l’atmosfera si ravviva (si fa per dire): sono le sfavillanti luci del King’s Theatre, uno splendido teatro degli Anni Venti, da poco restaurato, dove generalmente danno balletti, operette e spettacoli teatrali. E infatti l’androne è un trionfo di tappeti rossi, stucchi e raffinate colonne. Il pubblico è quello delle grandi occasioni ma di signore impellicciate e galantuomini in giacca e cravatta neanche l’ombra: per i corridoi imperversano personaggi dalle lunghe zazzere ornati di simboli esoterici. Non si ode il tintinnare dei flute ma il rimbombo dei rutti. Non si ammirano gli abiti da sera ma i sosia di King Diamond. In mezzo a tutta questa baraonda chiassosa e variopinta, le maschere del teatro svolgono il loro compito con impeccabile professionalità: avreste dovuto vederli, vestiti con panciotto e cravatta, mentre accompagnavano i fan di Re Diamante al loro posto, dopo aver scrupolosamente verificato il possesso del titolo d’ingresso. Decisamente surreale.

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Il palco è un’imponente scenografia che raffigura un vecchio manicomio criminale, ovvero l’ambientazione dell’album di prossima pubblicazione intitolato “The Institute”.
King fa il suo ingresso in scena, disteso su un lettino da ospedale psichiatrico. L’inizio è con i botti con The Candle (tratto dal primo album Fatal Portrait) e Behind these Walls da the Eye. Il demone danese è in gran forma, chiaramente trascinato da un teatro pieno zeppo che canta a memoria i suoi pezzi. Piano piano passano sul palco i personaggi delle sue storie: dalla sorella Missy, alla nonna mentalmente malata ad Abigail riposta dentro la bara. Il tutto mentre si susseguono le atmosfere malate di Funeral, Arrival, A Mansion in Darkness.

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I passaggi funerei di Let it be done introducono i ritmi tribali di Voodoo, un pezzo che non è certo un classico di King Diamond ma che rappresenta uno dei picchi del suo repertorio di fine anni Novanta/inizio anni Duemila. Si torna agli esordi con Halloween, sempre tratto dal primo album solista Fatal Portrait, per poi arrivare al presente con Masquerade of Madness, il primo brano tratto dal nuovo album. Un pezzo che, come avrete avuto modo di ascoltare, rimanda al King Diamond meno barocco e più lirico e che dal vivo risulta particolarmente efficace.
Il concerto prosegue senza sbavature ed è merito anche della grande band che accompagna King Diamond. Andy La Roque è il grande chitarrista che conosciamo: un virtuoso dello strumento ma anche un grande tessitore tanto di riff quanto di melodie. Mike Wead è meno noto ma dal vivo è essenziale per dare alla band un suono corposo e compatto (chi lo ricorda nei Memento Mori e negli Abstrakt Algebra?). Pontus Egberg al basso e il texano Matt Thompson alla batteria costituiscono una robusta e precisa sezione ritmica, senza la quale il suono di King Diamond non andrebbe molto lontano. Insomma: va bene lo spettacolo e tutto ma la sostanza musicale non passa mai in secondo piano.

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L’ultima parte del concerto è un trionfo di grandi classici: Welcome Home, The Invisible Guests, Sleepless nights fanno cantare tutti in coro, manco fossimo al concerto di Vasco Rossi. Si chiude con Burn, tratto da The Eye, e Black Horsemen, dedicata all’amico Timi Hansen, vecchio compagno di viaggio nei Mercyful Fate scomparso pochi giorni fa.

King Diamond non farà forse il genere di heavy metal oggi maggiormente in voga ma rimane un grande artista accompagnato da una grande band. Negli anni è sempre stato in grado di mantenere l’integrità artistica senza rinunciare a inserire elementi di novità nei suoi album. La sua musica costituisce un unicum che nessuno è ancora riuscito a emulare (conoscete band che copiano il suo stile?). Dal vivo, merita ancora di essere visto e apprezzato, specie se, come in questo tour, King Diamond ha la possibilità di esternare tutta la sua vena teatrale. Da non perdere quando arriverà in Europa.

Nick Bondis

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Report a cura di Nick Bondis

Ultimi commenti dei lettori

Inserito il 17 nov 2019 alle 03:21

Report molto bello, si alza ulteriormente la voglia di sentire il nuovo disco \m/