(02 luglio 2011) Black Label Society: Parco della Certosa Reale - Collegno (To)

Info

Provincia:TO
Costo:40
Nell’area abitativa di Torino, comprensiva anche della prima cintura ormai indistinguibile dalla metropoli stessa, prosegue il periodo di buona attività concertistico-musicale, inaugurato pressappoco agli inizi di questo nuovo secolo. Uno dei siti tra i più coinvolti nel discorso è il Parco della Certosa Reale di Collegno. Tanto per dire, nell’arco di quarant’otto ore, si sono qui esibiti due nomi di buon successo in ambito heavy metal: i Korn ed i Black Label Society.
Avvenimento positivo sotto vari aspetti, ma anche penalizzante per gli appassionati che avrebbero voluto gustarsi entrambe le formazioni. Se per i Korn l’afflusso di pubblico è stato abbastanza rilevante, per il gruppo di Zakk Wylde le presenze si sono attestate intorno alle trecento unità. Non moltissimo, per una band che a livello discografico vanta vendite considerevoli. Da segnalare, comunque, la contemporanea kermesse gratuita nel centro di Torino, che vedeva impegnati diversi grandi musicisti, seppur di genere completamente differente. Tenendo però conto che, perlomeno da noi ma credo un po’ in tutta Italia, se uno spettacolo non costa nulla diventa interessante per tutti, anche questo fatto avrà certamente inciso.
Veniamo ora al concerto vero e proprio, che viene aperto dalla guest-band statunitense Archer Nation. Si tratta di un classico power-trio, che propone una sorta di robusto heavy metal dal retrogusto americano, con ampie concessioni melodiche. Ma siccome l’ormai storico (…ma azzarderei quasi leggendario….nda ) trio di inviati subalpini è giunto sul posto con un certo ritardo, come tutti i personaggi importanti che si rispettino, la conoscenza con questa band è stata molto relativa e frettolosa. Bravo il chitarrista/vocalist, complessivamente discreti, da risentire.
Il “vero” show inizia con un gigantesco telone nero, con il simbolo dei BLS, eretto a nascondere il palco. Poco prima delle 22.00 esso viene fatto cadere, ed appare il quartetto già lanciato nella travolgente “Crazy horse”, uno degli hits più recenti. Wylde, irsuto ed ispido come sempre, esibisce il classico copricapo pellerossa fatto di piume, che toglierà all’inizio del brano successivo, “Funeral bell”. Ovviamente tutto è studiato per esaltare al massimo la figura del leader, non proprio famoso per la sua modestia. Lui rimarrà esattamente al centro della scena per quasi tutta la serata, impegnato a suonare, cantare e ad interpretare la figura del “rock warrior”, che è parte stessa della sua personalità. Il resto della truppa, come previsto, si adegua, ritagliandosi comunque il proprio spazio vitale. Ai lati, la coppia di “paisà” formata da John DeServio e Nick Catanese (..sembrano i nomi dei gangster di Al Capone..;-) si distingue sufficientemente sia per qualità che per simpatia, forse motivati dal lontano richiamo del sangue degli avi italiani. Da segnalare l’assolo chitarristico di Catanese, l’unico non eseguito dal boss, proprio perché Zakk era impegnato con il pianoforte in “Darkest days”. Il batterista Mike Froedge, recente acquisto, si limita giustamente a fare bene la sua parte, anche perché la line-up di questo gruppo non ha mai brillato per solidità e longevità.
Al di là della serie dei brani eseguiti, che è possibile vedere in scaletta, si può invece sottolineare il momento della performance solitaria del chitarrista/cantante, che ha diviso le opinioni dei presenti. Metto a frutto l’esperienza di una vita di concerti, ma soprattutto la saggezza frutto della mia “terza gioventù”, facendo come i giudici dei tuffi: elimino i giudizi estremi. Cioè, da una parte i fans sfegatati, quelli che si esalterebbero anche se il tipo facesse un pisolino sul palco (..sì, vero, ha solo ronfato, ma come ronfa Zakk Wylde non lo batte nessuno!); dall’altra i super-veterani snob, quelli che se uno si spara dieci minuti di assolo suonando solo col pisello, ti dicono di averne visti almeno mezza dozzina farlo meglio (…sì, bravino, ma quello là ce l’aveva molto più tozzo, te l’assicuro..). Quindi, la realtà è che si è trattato di un assolo un po’ stiracchiato per dare tempo al chitarrista di interagire anche col pubblico lato-palco. Tecnicamente poco impegnativo, ma giocato tutto sull’insistenza e la velocità. In gergo calcistico: “massimo risultato col minimo sforzo”, tecnica che ho visto usare da molti altri, specie nei concerti dei ’70 e primi ’80.
Inoltre, è innegabile l’inclinazione di Wylde per la spettacolarità di matrice Usa, comprese certe coloriture un po’ pacchiane che fanno parte della cultura e della tradizione di quel paese. E vari particolari, vedi ad esempio l’esibizione della bandiera nazionale, l’omaggio alla cultura dei nativi, l’album interamente legato all’11 settembre e così via, testimoniano un accenno di quella particolare sensibilità “patriottica” che troviamo invece esasperata al massimo in personaggi come Ted Nugent, al di là delle ovvie differenze prettamente musicali. In questo senso i BLS “sono” Zakk Wylde, il suo usare decine di vistose chitarre diverse, l’attitudine ribelle ma onesta, il whiskey, il voler sottolineare la sua appartenenza alla filosofia “on the road” delle infinite autostrade americane, ed il tutto viene rispecchiato sia dal lato stilistico, massima durezza e potenza ma anche spazio per le ballate “anima e ‘core” che gli americani adorano, nonché ovviamente in sede live.
A proposito di chitarre, l’apice estetico è arrivato al momento dell’esecuzione di “The blessed hellride”, quando sia il boss che Catanese si sono presentati con la versione a doppio manico, dodici corde, ecc. La chiusura del concerto è invece affidata ad una lunga e potente versione di “Stillborn”, dopodichè il quartetto si prodiga in estesi saluti al pubblico, lasciando infine il palco.
Qui nasce il secondo dibattito della serata, riguardo l’assenza del classico “bis”. La storia di tale usanza affonda nella notte dei tempi, basti pensare all’ultracentenario modo di dire “Paganini non ripete”. Infatti per moltissimo tempo, l’aggiunta di musica oltre il programma previsto è stata cosa rara e utilizzata solo in particolarissime occasioni. Giunti ai tempi moderni, soprattutto nel rock poi negli altri generi, è diventata dapprima una cosa saltuaria, poi una frequente abitudine ed infine la coda del novantanove per cento dei concerti, ormai talmente scontata da fare clamore solo quando non si verifica. In questo senso, nulla di scorretto. La serata è stata abbastanza lunga, priva di pause significative, soprattutto di grande forza ed intensità, certamente la band non si è risparmiata, anzi ha dato tutto ciò che aveva, per cui un paio di brani in più non avrebbero aggiunto nulla e sono stati giudicati superflui.
La mia vera perplessità è diversa. Il costo del concerto era quaranta (40) euro. Circa settantacinquemila lire di una volta. Per un gruppo senz’altro buono, ma non fondamentale, ed una spalla sconosciuta. Il giorno prima c’erano i Korn a trentotto (38) euro. Totale di entrambi 78 euro, se non erro circa 150.000 lire. A me sembra uno sproposito. E’ vero, io ragiono da vecchi tempi, ok, e sono anche disoccupato, quindi in pessime condizioni per giudicare, ok. Però al concerto dei Black Label Society, c’erano a malapena trecento persone. Tante? Poche? Vedete voi.

Setlist:

Crazy Horse
New Religion/Crazy Horse
Funeral Bell
Bleed for Me
Demise of Sanity
Overlord
Parade of the Dead
Born to Lose
Darkest Days
Fire it Up
Guitar Solo
Godspeed Hell Bound
The Blessed Hellride
Suicide Messiah
Concrete Jungle
Stillborn

Foto a cura di Sergio Rapetti

Ultimi commenti dei lettori

Inserito il 18 lug 2011 alle 22:25

a malapena 300??? mamma mia...