Dream Theater - A View From The Top Of The World

Copertina 6,5

Info

Anno di uscita:2021
Durata:70 min.
Etichetta:InsideOut Music

Tracklist

  1. THE ALIEN
  2. ANSWERING THE CALL
  3. INVISIBLE MONSTER
  4. SLEEPING GIANT
  5. TRANSCENDING TIME
  6. AWAKEN THE MASTER
  7. A VIEW FROM THE TOP OF THE WORLD

Line up

  • John Myung: bass
  • John Petrucci: guitars, vocals (additional)
  • James LaBrie: vocals
  • Jordan Rudess: keyboards
  • Mike Mangini: drums

Voto medio utenti

Lasciate che vi racconti brevemente una storia, che magari i più giovani non conosceranno:

C’era una volta una band che, attraverso IMMAGINI E PAROLE (Images & Words) evocate dalla propria musica, era capace di RISVEGLIARE (Awake) le emozioni più profonde dell’animo umano, riuscendo letteralmente a far sognare!
Successivamente, con l’arrivo del NUOVO MILLENNIO, ci fu un brusco e repentino CAMBIO DI STAGIONE (A Change Of Seasons) e, di quei gloriosi tempi, oggi rimangono solo alcuni FRAMMENTI rubati ad UN RICORDO (Scenes From A Memory). Il Sogno venne spazzato via definitivamente da una violentissima TRANVATA DI PENSIERI (Train Of Thoughts), e tutto degenerò irrimediabilmente in un DISORDINE SISTEMATICO (Systematic Chaos) che, ancora oggi, a DISTANZA DI TEMPO (Distance Over Time) non trova fine.

Al di là dei giochi di parole, il concetto credo l’abbiate afferrato: i Dream Theater erano QUELLI di allora, della prima decade della loro carriera, ispirati e in grado di toccare le corde più intime dell’animo umano (e gliene sarò per sempre grato), ma ormai purtroppo, dopo tanto tempo passato a dare alla luce dischi pieni di (poche) luci e (molte, troppe) ombre, i Dream Theater sono diventati anche (e soprattutto) QUESTI degli ultimi 20 anni: freddi, stanchi, svogliati e boriosamente ripetitivi, considerando che hanno preferito crogiolarsi nelle proprie auto-citazioni, piuttosto che ricercare nuove strade da percorrere per rivitalizzare il proprio sound.

Fatta questa doverosa premessa, A View From The Top Of The World, il nuovo arrivato in casa del combo newyorkese, è un disco che potrebbe collocarsi esattamente a metà tra le 2 diverse epoche della band, in quanto, da una parte, è caratterizzato dalla voglia di osare e tornare a far sognare ma, al tempo stesso, rimane prigioniero dei soliti schemi che hanno limitato il gruppo negli ultimi anni.
Il disco infatti, se da a un lato, è pieno di spunti interessanti e sentimento crescente, dall’altro, è come se, non riuscisse mai a riemergere del tutto dalle sabbie mobili in cui i nostri sono rimasti impantanati nell’ultimo ventennio, sebbene sia pieno zeppo di buone intenzioni.
L’amaro messaggio velato finale che personalmente ho colto è quello di un triste: “Vorremmo, ma non possiamo (o non vogliamo)!

Ma entriamo nel dettaglio: A View From The Top Of The World dicevamo, non è assolutamente brutto e merita di essere ascoltato, nonostante un inizio tutt’altro che promettente, in cui, in occasione delle 3 prime tracce, la band sembra ricadere, sin da subito, nei soliti difetti auto-celebrativi che ne hanno caratterizzato pesantemente l’ultimo periodo della carriera. E cosi, già al primo impatto, si avverte quella sensazione di già sentito, in particolare in Answering The Call che in certi frangenti ricorda molto da vicino In The Presence Of Enemies, mentre la successiva Invisible Monster è una sorta di medley che richiama moltissimi altri pezzi dell’era post-Portnoy.

Tuttavia il disco, il cui livello qualitativo si innalza sensibilmente nella seconda parte, vive di improvvise fiammate figlie, come sempre, della classe innata di Petrucci e Rudess, che tessono azzeccatissime trame strumentali, orientate verso scelte melodico-compositive inaspettate e, per certi versi innovative, rispetto alla già citata tecnica di “auto-copia ed auto-incolla” tanto praticata nel più recente passato dei nostri. Ne beneficia indubbiamente il trasporto emotivo (da troppo tempo sopito!), soprattutto nei brani più riusciti ed ispirati, come l’agrodolce Sleeping Giant, la melodica ma incisiva Transcending The Time, l’affascinante Awaken The Master, in cui la sgradevole sensazione di già sentito viene superata dai virtuosismi di chitarra e tastiere o, la suite finale, della durata di 20 minuti, (ormai una tradizione DreamTheateriana), che rappresenta la title-track e che è il fiore all’occhiello dell’intero album, coi suoi continui cambi di melodia, ritmica e struttura dove, Petrucci e Rudess, la fanno ancora una volta da padroni!

Dal punto di vista squisitamente compositivo quindi, come si diceva, i Dream Theater fanno registrare indubbiamente un sensibile miglioramento rispetto alle loro ultime uscite ed il disco, ad un primo ascolto, sembra anche funzionare ma, attenzione: NON SONO TUTTE ROSE E FIORI!
Da subito si ha la sensazione che, nonostante le buone idee presenti, qualcosa vada inesorabilmente storto e finisca per penalizzare un lavoro che, a conti fatti, ha tutta l’aria di somigliare ad una potente macchina da corsa, che però, procede con il freno a mano tirato, non riuscendo mai ad esprimere pienamente le proprie potenzialità!

Le cause di questa situazione? Va bene, facciamoci del male ed attiriamoci le ira funeste di tutti coloro che, a prescindere, difenderanno ciecamente sempre e comunque i Dream Theater!

Detto già della sindrome di “auto-copia/incolla” ancora presente, anche se in maniera meno ingombrante, è ormai evidente (e chi lo nega, o non ha mai conosciuto il passato glorioso dei DT, oppure è in malafede!) che nella band ci sia un grossissimo problema, rappresentato dalla voce di Labrie.
Spiace dirlo ma, non siamo più al cospetto del James Labrie dei tempi d’oro e non parlo solamente di estensione vocale (quella cala fisiologicamente col tempo), ma di mancanza di espressività, che è sempre stato uno dei suoi cavalli di battaglia! L’iniziale The Alien ne è un vivido esempio, una traccia convincente, che potrebbe anche funzionare, se non venisse rovinata dalla prestazione non all'altezza del vocalist, non priva, tra l’altro, dei soliti insopportabili effetti filtrati.
Purtroppo però, il discorso è molto più ampio e si potrebbe estendere anche alle altre tracce dell’album, in particolare quelle in cui le composizioni sembrano convincere maggiormente, in questi episodi il contrasto tra la struttura musicale ed il cantato, che non trasmette più il calore di un tempo e mal si sposa con il resto del brano, è evidente. Ne risente il livello qualitativo delle canzoni che vengono sistematicamente penalizzate dalla voce svogliata di Labrie il quale, nonostante ricorra più volte ai tipici trucchetti da studio per camuffare, quanto possibile, i propri limiti, non riesce più a incidere sensibilmente a livello di trasporto emotivo, rifugiandosi volutamente in refrains stucchevoli e banali, vanificando la qualità dei brani, anziché valorizzarli. Duole ammetterlo, perchè il timbro del singer canadese è sempre stato il marchio di fabbrica dei Dream Theater, ma sarebbe ora che Petrucci si rendesse conto di questa situazione che sta diventando alquanto insostenibile.
Altro punto dolente del disco è poi, come nei precedenti 4 lavori da studio, la batteria; esageratamente artificiale, troppo meccanica, da sembrare quasi finta! Non c’è niente da fare, ormai è evidente: Mike Mangini ha il suo stile, un mostro di precisione e velocità, ma anche di freddezza! Va col pilota automatico, come fosse una macchina; non avrà mai il cuore, né la classe con cui suonava Portnoy che, in un disco del genere, avrebbe potuto fare la differenza, facendogli fare un decisivo salto di qualità, apportando calore e sentimento (di cui si sente un terribile bisogno!)

Insomma, dinnanzi ad un platter simile, le considerazioni finali possono essere più o meno positive, in base a come si vuole vedere il famoso bicchiere, ma alla fine si tratta sempre di 2 facce della medesima medaglia!

CONSIDERAZIONE FINALE 1: BICCHIERE MEZZO PIENO!
Se vogliamo vedere il bicchiere mezzo pieno, non si può sicuramente non apprezzare il sensibile passo in avanti che è stato fatto rispetto al più recente passato, quando ogni nuova uscita discografica dei Dream Theater somigliava sempre di più al famoso cubo di Rubrik: tremendamente ingarbugliata, ripetitiva e apparentemente senza capo né coda ed, alla fine, ciò che rimaneva, erano delle semplici e fredde tonalità cromatiche su una figura geometrica, che nessuna emozione erano in grado di lasciare.
Invece stavolta c’è maggiore voglia di far bene, un trasporto emotivo crescente, una qualità compositiva in costante aumento ed il merito, come già detto, è soprattutto di John Petrucci e Jordan Rudess che si rendono autori di fraseggi, assoli e riffs veramente indovinati, illuminando i molti punti oscuri delle varie tracce.

CONSIDERAZIONE FINALE 2: BICCHIERE MEZZO VUOTO!
Rimane tuttavia inevitabilmente un pò di rammarico per ciò che avrebbe potuto essere e (nemmeno in questa occasione) è stato!
Forse sarà il mio dente avvelenato a parlare (tipico del fan di vecchia data che più volte si è sentito ripetutamente tradito), ma stavolta, con un materiale (finalmente) di maggiore qualità, caratterizzato da composizioni più ispirate, i Dream Theater avrebbero potuto ottenere molto di più e forse lo avrebbero anche meritato, invece, a conti fatti, ci si ritrova nuovamente a parlare di un lavoro riuscito solo per metà, in cui le buone intenzioni e le intuizioni della band non vengono sviluppate a dovere, ma anzi, vengono vanificate dai soliti (ormai vecchi) difetti, che penalizzano eccessivamente un disco su cui si sarebbe dovuto osare maggiormente, anche con delle scelte coraggiose e magari impopolari ma che, alla lunga, avrebbero pagato!
Alla fine si ha la netta sensazione che, nonostante un’emotività crescente rispetto alle uscite discografiche più recenti della band, essa non sfoci mai nel sentimento vero e proprio, perfino in quei frangenti di picco emozionale, che avrebbero potuto essere il vero punto di forza del disco.
Ma del resto, questi sono i Dream Theater attuali, prendere o lasciare (io lascio!)...forse nel loro profondo desidererebbero tornare ad ardere la fiamma della passione come un tempo, ma non possono (magari semplicemente perché non ne sono più in grado?) e, a noi fans di vecchia data, oggi non resta che vivere di ricordi!

Quindi riassumendo in conclusione, A View From The Top Of The World è un lavoro molto valido tecnicamente (ma su quello non v’era dubbio alcuno!), sicuramente più che sufficiente dal punto di vista compositivo ma dotato, ancora una volta, di poco cuore; pertanto, se cercate le emozioni, quelle vere, che sapeva trasmettere questa band, guardate altrove, non è questo il disco giusto!



Recensione a cura di Ettore Familiari

Ultime opinioni dei lettori

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Ultimi commenti dei lettori

Inserito il 28 ott 2021 alle 00:08

Purtroppo, mi trovo d'accordo con la recensione di Hector, al quale faccio grandi applausi per il geniale incipit della recensione, con la citazione di molti album dei DT. Per onestà premetto di essere "una vedova" di Portnoy e un fan di vecchia data. Ho sempre percepito freddezza in Mangini...ma stavolta almeno lo sento più dentro la canzone. L'album non mi ha fatto saltare sulla sedia, ma Sleeping giant e Awaken the master però mi piacciono ;)

Inserito il 24 ott 2021 alle 11:48

Beh, con i loro alti e bassi... grazie per la fiducia! Vero! Ma le volte che mi sono fidato non mi hai deluso

Inserito il 24 ott 2021 alle 09:50

Beh, con i loro alti e bassi... grazie per la fiducia!

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