Copertina 7,5

Info

Genere:Heavy Metal
Anno di uscita:2006
Durata:45 min.
Etichetta:Old Ones

Tracklist

  1. INTRO
  2. AGE OF WARS
  3. MERCENARY
  4. SON OF DEATH
  5. JUST A DREAM
  6. MARCH OF THE IMMORTAL
  7. THE EVIL INSIDE
  8. FLOWER OF WINTER
  9. VICTORY’S NOW!
  10. … AND CHAOS CAME FROM NOWHERE

Line up

  • Tiberio Natali: vocals
  • Sandro Capone: guitars
  • Daniele Genugu: guitars
  • Giorgio Novarino: bass
  • Giulio Capone: drums

Voto medio utenti

“Long time no see” verrebbe da dire pensando al come back discografico dei lombardi Bejelit: superati i problemi di line up causati dall’abbandono del cantante Fabio Privitera, e quelli contrattuali con l’Underground Symphony, gli autori di “Hellgate” tornano alla vita con questo nuovissimo “Age of wars”, prodotto dal chitarrista e fondatore Sandro Capone, che ha creato per l’occasione la sua personale etichetta, la Old Ones.
Di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia, e pur continuando, a livello lirico, il concept oscuro di Gatsu (il guerriero nero protagonista di “Berserk”, il fumetto capolavoro di Kentaro Miura), dal punto di vista musicale i cambiamenti apportati sono notevoli. Già l’attacco furioso della title track, con il cantato-rasoio del nuovo singer Tiberio Natali, fa capire che la band ha deciso di muoversi su territori decisamente più aggressivi. Il brano citato è indubbiamente il più pesante mai composto dai Bejelit e non ci vuole molto a capire che è proprio Tiberio il punto di forza di questa loro nuova incarnazione: la sua voce potente e ruvida, dotata di un timbro sporco e grezzo davvero particolare, è lontana anni luce da quella maggiormente “dickinsoniana” di Fabio Privitera, e si sposa decisamente meglio con il tipo di metal che il quintetto di Novara è intenzionato a proporre.
La cavalcata di “Mercenary” e la successiva “Son of death”, un anthemico mid tempo davvero trascinante ci confermano in pieno questa impressione: meno legato al sound maideniano del disco precedente, “Age of wars” preferisce guardare alle atmosfere barbare e selvagge di gruppi come Omen, Brocas Helm o primi Manowar, combinando saggiamente la potenza dei riffs con l’epicità delle melodie. Non mancano comunque palesi riferimenti al power metal di stampo europeo, evidenti in certi assoli o in “Just a dream”, che sembra ricordare gli Helloween in più di un passaggio. Il nuovo corso dei Bejelit è presente soprattutto in “March of the Immortal”, che si avvale di interessanti orchestrazioni, e che riesce ad essere particolarmente inquietante grazie alle vocals in screaming che si intrecciano a quelle di Tiberio, un canovaccio già utilizzato con successo da Kamelot e Nocturnal Rites, ma che non suona per questo ripetitivo. Un brano che i fans di Berserk apprezzeranno particolarmente, per il ritratto realistico che riesce a dare del mostruoso Zodd, uno dei “cattivi” più riusciti della saga di Gatsu.
Bellissima anche “The evil inside”, la traccia più immediata del disco, che è un bel pezzo metal da manuale, interpretato da Tiberio con un feeling decisamente street rock che non stona per nulla nel contesto di un album in cui l’istintività gioca comunque un ruolo di primo piano. “Victory’s now” è un altro pezzo da novanta: altra cavalcata sontuosa (qui si paga decisamente pegno agli Iron Maiden però!) con un cantato bellissimo che non faticherà ad entrarvi nella testa, e che sembra riportarci indietro nel tempo in un periodo in cui heavy metal significava innanzitutto belle canzoni, con ritornelli da imparare a memoria e da cantare a squarciagola.
C’è spazio anche per una ballata, “Flower of winter” che però non mi ha convinto appieno: questione di gusti, perché il pezzo è comunque interessante.
Unica nota veramente negativa in tutto questo è la conclusiva “…And Chaos came from nowhere”, che altro non è che una pesante scopiazzatura dei Blind Guardian di “Somewhere far beyond” e “Imaginations from the other side”, addirittura con Tiberio che sembra sforzarsi il più possibile di fare il verso ad Hansi Kursch. Ma dico: con tutte le buone idee che siete riusciti ad esprimere c’era proprio bisogno di un pezzo così banale che, oltretutto, non c’entra assolutamente nulla con la direzione musicale di “Age of wars”? Speriamo che si sia trattato solo di un affezionato omaggio (conosco la passione che il chitarrista Daniele nutre per i bardi di Krefeld) e nulla di più…
Un'altra cosa non propriamente positiva sono i testi: il loro inglese non è purtroppo sufficientemente curato per un gruppo che aspira ad una capillare distribuzione europea. Questo è purtroppo un problema di molte bands italiane che non va sottovalutato e che in questo momento costituisce forse l’unico gap che ci separa da Germania, Svezia e compagnia bella.
Possiamo comunque accogliere con gioia questo “Age of wars”, nella certezza che la scena italiana ha ritrovato un gruppo ancora giovane, ma destinato sicuramente a grandi cose. In un periodo in cui dischi senz’anima e prodotti in fotocopia invadono il mercato senza lasciare traccia alcuna, fa davvero piacere incontrare una band che suda davvero lacrime e sangue sul proprio lavoro. Comprate questo disco e andateli a vedere sui palchi italiani che calcheranno numerosi quest’estate: non ve ne pentirete!
Recensione a cura di Luca Franceschini

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