Virgin Steele - Ascesa & Declino Degli Dèi

Info

Pubblicato il:15/04/2024
Se vi è un genere, nel panorama metal, che diventa estremamente difficile descrivere e dove invece è l’ascolto che fa capire al meglio tutte le sue qualità e peculiarità, è probabilmente l’epic metal. Il rischio di incappare nei vari atteggiamenti tamarri o portati all’esasperazione da band come Manowar diventa molto facile, anche se con questi vi è una netta linea di demarcazione tra la prima fase del gruppo americano, molto più incentrata sul suscitare emozioni e parlare attraverso la musica, che nella seconda dove l’apparire è diventato invece il punto di forza. Ma diventa altrettanto complicato distinguere l’epic metal da ciò che sembra esser diventato negli ultimi anni il fenomeno cosplay, ovvero gruppi che, proclamando (o ancor peggio in alcuni casi vestendosi, Warkings) atteggiamenti battaglieri (Amon Amarth) portando tutto ciò spesso sul palco ripetendo, anche qui, la conferma di quanto l’ascoltare e non il solo vedere sia passato in secondo (se non terzo) piano. Attenzione però, questo non implica che debba tutto rimanere nell’underground, e appena si esce da questa immaginaria linea di confine per abbracciare una più larga fetta di pubblico, la musica conseguentemente si svaluti, magari riuscendo comunque ad attestarsi su buoni livelli. Ma la storia insegna che nella stragrande parte dei casi, band capostipite del genere come Omen, Cirith Ungol, Brocas Helm, i Manilla Road che grazie al loro leader Mark Shelton hanno saputo incarnare, forse più di chiunque altro la vera accezione di epic metal, i nostrani Dark Quarterer e Doomsword, Warlord, Medieval Steel e che più ne ha più ne metta… hanno “lavorato”, e alcune ancora lavorano nel territorio prettamente underground. Ma pur differenziandosi ognuna con un suo stile ben specifico, vi è un gruppo in particolare che, partendo da basi heavy metal con un tocco di hard rock/blues non troppo nascosto, è riuscita ad evolvere il proprio sound portando il concetto di epic metal stesso a livelli difficilmente eguagliabili, sia in termini di songwriting che soprattutto in relazione al suono, definito da loro stessi come barbaric/romantic. E avrete capito sia dal titolo di questo articolo in primis, e sia da questo breve e spero non noioso preambolo, che parliamo dei Virgin Steele.

Che la band di David Defeis sia oramai arrivata alla frutta, se non peggio, nell’ultima decina di anni soprattutto non è certo un mistero, ma ciò che voglio fare con questo articolo non è focalizzarmi essenzialmente sulla loro storia, ma approfittando di quest’ultima andare a scoprire ciò che ha reso il loro sound unico e inimitabile per molto tempo, per poi capire le ragioni dietro il declino sia compositivo, ma anche di immagine.

Partiti essenzialmente con un background che doveva molto alle lezioni hard rock impartite tempo prima da Led Zeppelin e Whitesnake, ai quali quest’ultimi Defeis stesso prenderà molte similarità nel modo di cantare di David Coverdale, ma anche nei primissimi Queen, i VS grazie anche all’apporto di Jack Starr, talentuoso chitarrista statunitense (madre francese / padre americano), si fecero immediatamente riconoscere nel panorama musicale ricevendo non solo complimenti da band del calibro di Queensryche e Metallica, oltre che a comparire sulla compilation ‘US Metal – Volume II’ del 1981 con ‘Children Of The Storm’, pezzo presente sull’omonimo debut album del medesimo anno. Ciò che saprà contraddistinguere la band sarà proprio quel sottile filo che, grazie sia a Defeis che Starr, sarà costantemente intrecciato fra un heavy metal accattivante capace di strizzare l’occhio a ritornelli di facile presa, ma anche a un sottofondo prettamente epic creato non solo dalle tastiere, e la voce di un Defeis che, seppur ancora acerba, capace di sprigionare potenza e carisma difficilmente ascoltabili in altri album dell’epoca. I due album incisi con Starr viaggeranno prettamente tutti su queste coordinate, anche se il primo omonimo sarà quello più immaturo da questo punto di vista, non tanto per la qualità dei pezzi, apprezzabili se presi a sé stanti, ma se visto in un’ottica più generale sulla discografia della band e sulla maturità avuta poi anno dopo anno.



Come testimonianza di questo dualismo in questo breve periodo (1981 – 1984) ci sono canzoni come ‘American Girl’, ‘Living In Sin’ o ‘Life In Crime’ dal sapore più sbarazzino e perfette per metter su un hard rock/heavy metal con il quale passare del tempo per divertirsi, mentre dall’altro lato ci sono la già citata ‘Children Of The Storm’, la rainbowiana ‘The Redeemer’, o la ballad ‘A Cry In The Night’ dove la voce di Defeis diventa sempre più capace di spaziare tra le sue varie sfumature, crescita che non accennerà a diminuire negli anni seguenti.



Le però costanti diatribe sulla via da seguire per il sound dei VS causerà l’abbandono di Jack Starr nel 1984, fondando i suoi Jack Starr’s Burning Starr, band che a parere di chi scrive non è mai riuscita, perlomeno nella sua fase anni 80’, a realizzare un album veramente degno di nota, viaggiando anch’essa tra un hard rock/heavy metal che tentava di indurire il sound di band come Journey, che all’epoca erano nella loro fase più popolare (a cavallo tra ‘Frontiers’ e ‘Raised On Radio’), con risultati davvero scialbi come ‘Rock The American Way’. La fase successiva invece, della reunion con soprattutto i lavori con Todd Michael Hall alla voce sarà di tutt’altro risultato. Tornando ai Virgin Steele, viene ingaggiato al posto di Starr un certo Edward Pursino, amico di infanzia di Defeis. Il risultato sfocia in ‘Noble Savage’, primo album dove la passione del cantante verso tematiche più epicheggianti ed eroiche prende il via libera, spaziando non solo nell’immortale Titletrack, ma anche su altre tracce che mantengono intatte l’heavy metal dei precedenti dischi, ma rendendolo ancora più compatto grazie anche all’apporto di Pursino e ad un Defeis che vocalmente raggiunge uno dei suoi primi apici, basti sentire ‘The Angel Of Light’ alla quale deve essere data anche la giusta attenzione per l’uso delle tastiere, o ‘Thy Kingdom Come’. Rimane l’impronta di un metal più arioso come ‘Rock Me’ e ‘I’m On Fire’, ma la sensazione è quella di trovarsi comunque a un prodotto estremamente più omogeneo rispetto ai precedenti, dove non manca dall’altra parte neanche il metal più puro, alla Manowar se vogliamo, di ‘Fight Tooth And Nail’ o ‘We Rule The Night’.



Gli anni appena successivi sono quelli che vedono aumentare la popolarità dei Virgin Steele che, fra tour con i ‘cugini’ Manowar e addirittura con i Black Sabbath, sembrano essere ormai in cima al mondo. Accade però che per ‘Age Of Consent’, quarto disco della band, il cambio di etichetta effettuato con Maze Music li porterà allo sfacelo, dato che quest’ultima si renderà incapace di promuovere in maniera corretta l’album, oltretutto fallendo e mettendo in pausa la band fino al 1992. Quattro anni sembrano un lasso di tempo più o meno breve, ma in anni dove l’heavy metal andava lentamente verso il tramonto della sua risonanza (non della sua qualità) in favore di generi come il grunge, poteva significare la parola fine sulla carriera di una band. E questo fu effettivamente un peccato, perché il discorso musicale anche qui proseguiva quello iniziato su ‘Noble Savage’, andandolo ad arricchire con pezzi più elaborati ma comunque sempre pieni di quell’epic metal come la celeberrima ‘The Burning Of Rome (Cry For Pompeii)' , la possente ‘Lion In Winter’, o ‘Tragedy’ dove le radici hard rock degli inizi confluivano perfettamente con la visione “barbaric” di Defeis. Questo rimanendo sempre con canzoni altrettanto valide come ‘Seventeen’ o la riuscitissima cover di ‘Stay On Top’ degli Uriah Heep.



Sarà solo nel 1992 che Defeis deciderà di riprendere in mano la band, pubblicando l’anno seguente ‘Life Among The Ruins’, album atipico nell’intera discografia della band. Dico atipico non perché presenti sonorità totalmente estranee a ciò che era stato presentato fino a quel momento, ma perché la passione del cantante statunitense per gli Whitesnake, ma anche per Thin Lizzy e Queen, emergerà prepotentemente per tutte le canzoni del platter. Una decisione che, se vista con gli occhi (o ascoltata con le orecchie) di un fan dell’epoca poteva sorprendere, ma che, se contestualizzata ora, non è poi così imprevista. Dato ciò che sarà pubblicato successivamente, il voler focalizzare tutto su un disco fortemente orientato all’hard rock/blues, presente su canzoni come ‘Sex Religion Machine’, la bellissima ‘Love Is Pain’ con il suo irresistibile ritornello, o la semi-ballad ‘Never Believed In Goodbye’. Sarà proprio a partire da questo album che Defeis avrà il suo secondo apice a livello vocale, accentuando la sua potenza espressiva e giocando su moltissime sfumature che contribuiranno a rendere le varie canzoni più uniche. ‘Too Hot To Handle’ sembra richiamare i vecchi fasti, mentre una grande attenzione va data all’uso delle tastiere, sia nella strumentale ‘Invitation’ che nel resto delle canzoni, uso diverso da quello che poteva essere presente su ‘Noble Savage’, qui orientato più verso un qualcosa di intimo e, in certe occasioni, sensuale.



Quasi a fungere da apripista per la fase più conosciuta e generalmente apprezzata dai fan della band, il disco aprì alla saga dei due ‘The Marriage Of Heaven And Hell’, usciti rispettivamente nel 1994 e nel 1995, e di ‘Invictus’ poi nel 1998. Sarà qui che la band, ma soprattutto David Defeis, raggiungerà il proprio zenith compositivo, arrivando sia grazie ad un ispirazione mai banale che ad un songwriting privo di punti deboli, più epic metal che mai, a comporre in un lasso di tempo estremamente breve (5 anni) la summa della propria proposta, cresciuta, come detto, all’inizio, in canzoni come ‘I Will Come For You’, ‘Blood Of The Saints’, ‘Emalaith’ che presenta al suo interno tutte le caratteristiche del sound VS come anche 'Crown Of Glory', mentre su ‘Blood Of The Saints’ o ‘Rising Unchained’ dove è Pursino a farla da padrone, al contrario delle pubblicazioni recenti (ci arriveremo tra poco), mentre il nuovo innesto Frank Gichriest alla batteria fa decisamente bene il suo dovere su ‘Prometheus (The Fallen One)’ o l’anthemica ‘Victory Is Mine’. Con i Manowar che avevano esaurito ormai il loro filone di idee e si stavano, neanche tanto lentamente, buttando su un metal più autocelebrativo che qualitativo ed epic, i Virgin Steele degli anni Novanta erano al loro picco assoluto, rappresentato poi da ‘Invictus’ che porterà tutte le peculiarità e i tratti della musica presente nei due Marriage ad esplodere (metaforicamente parlando), regalando un disco ancora oggi immortale e che no deve mancare nel percorso di chiunque voglia intraprendere un ascolto in un genere musicale che a mio parere (e sottoscrivo mio parere) sa regalare emozioni più di altri nel metal. La formula oramai è ben rodata, ma non per questo risulta scontata, regalando momenti di altissimo estro compositivo come nella lunga suite ‘Veni, Vidi, Vici’ o ‘Sword Of The Gods’ che nella parte centrale vede un Defeis scatenato sia nelle tastiere che nella performance vocale, o ancora nelle brevi strumentali ‘In The Arms Of The Death God’ e ‘Amaranth’, passando per la parte finale di ‘Mind, Body, Spirit’ dove l’abilità al falsetto di Defeis è da pelle d’oca, e quando non era ancora usato a sproposito per sopperire ad un calo vocale. Viene estremamente difficile descrivere la sontuosità e la bellezza di un disco come ‘Invictus’, il quale va senza dubbio ascoltato ed apprezzato in tutte le sue sfumature.





Ma le idee non terminano così, anzi. ‘The House Of Atreus’, diviso in due atti usciti rispettivamente nel 1999 e nel 2000, vede la storia dell’Orestea, trilogia di tragedie del drammaturgo greco Eschilo, l’atto finale non solo del picco compositivo raggiunto dai Virgin Steele in così poco tempo, ma anche l’inizio di un lento ma inesorabile declino che sarebbe proseguito negli anni successivi. Qui Defeis non presta la sua voce unicamente nel cantare, ma soprattutto nell’interpretare i vari personaggi della tragedia. Ed è proprio per questo che, soprattutto sul secondo atto, i pezzi brevi ricoprono la medesima importanza assieme a quelli più canonici, penso a una ‘The Judgement And The Son’ o a ‘Blaze Of Glory (The Watchman’s Song)’ che fungono da introduzioni perfette nel creare il pathos per le canzoni successive. Più di altri, i due ‘House Of Atreus’ ruotano attorno ad una parola più di altre, atmosfera. Un atmosfera carica di dolore (‘When The Legends Die’), di epicità (‘Summoning The Powers’, ‘Agony And Shame’), di coraggio e di dubbi dei vari protagonisti che Defeis, conscio ormai delle sue potenzialità, interpreta in maniera encomiabile e passando con una facilità spaventosa dall’una all’altra. A differenza di quello che si potrebbe pensare, metal ed opera in questo caso non ci pone davanti ad un polpettone difficilmente digeribile, ma ad un prodotto che riesce a viaggiare e a far viaggiare l’ascoltatore in un epoca e in emozioni che, se fatte con un filo di ispirazione in meno o ancor peggio, fatte tanto per, avrebbero portato atteggiamenti come la noia in veramente pochissimo tempo. Difficile restare assenti durante l’ascolto di questi due album capaci di mostrare, come se ve ne fosse ulteriore bisogno, dell’estrema versatilità di una band che fino a quel punto, aveva sbagliato fondamentalmente nulla.



Ma purtroppo, tutte le belle storie non finiscono bene. Seguono relativamente molti anni per il successore dei due ‘House Of Atreus’, dato che solo nel 2006 esce ‘Visions Of Eden’, e qui si apre un discorso. Quest’ultimo è un album che, pur mantenendo intatti i tratti del sound VS, si orienta verso uno stile più romantico che barbarico, come è solita anche definire la band stessa la propria proposta, ma i problemi di fondo, qui come anche nel successivo ‘The Black Light Bacchanalia’ del 2010, sono due. Primo, quasi la totalità dei pezzi viene allungata a dismisura in favore, a seconda di Defeis stesso, di una maggiore epicità. Ciò in alcuni casi è vero perché, se ‘Immortal I Stand (The Birth Of Adam)' grazie anche a delle tastiere che prendono via via più protagonismo rispetto alla chitarra di Pursino, messa sempre più in secondo piano, funziona pur risultando inevitabilmente lunga, il medesimo discorso non può essere applicato ad una ‘Angel Of Death’, cantata magistralmente da Defeis, ma che sente la pesantezza di alcune parti che potevano essere tagliate. Il secondo punto, è Defeis stesso. Varie voci furono messe in giro, e ancora oggi circolano, sul fatto che il cantante sia stato colpito da un tumore alle corde vocali, o un qualche sorta di problema ad esse, e che questo l’abbia spinto a rimodulare il suo tono di voce. Questo si evince soprattutto nei live, dove l’energia di un tempo viene messa gradualmente da parte in favore di un maggior uso del falsetto, che arriverà ad essere estremamente irritante anno dopo anno, e che farà guadagnare a Defeis l’assonanza ad un gatto che miagola, più che un leone ruggente.



A questo va aggiunto un impegno sul fronte live che andrà pian piano decimandosi, preferendo date selezionate piuttosto che un tour. Dicevo che con ‘The Black Light Bacchanalia’ il discorso non cambia, e pur essendo io una di quelle persone che apprezza gran parte di quel disco, sopratutto per le tematiche dietro le canzoni che proseguono il discorso iniziato col precedente album, è impossibile non vederne i difetti, pressoché gli stessi del precedente ma enfatizzati a causa del naturale passare del tempo. L’unica cosa che ancora salva questi due album, è la scelta di Defeis che, vocalmente, ancora non punta tutto sul dover essere la copia sbiadita del cantante che fu, ma che decide di cantare su toni medio-bassi non rovinando totalmente le canzoni. Dall'altro faccia della medaglia, vi è una produzione assolutamente non ideale, con chitarre spompate, e contando che all'uscita l'etichetta per la quale uscì, la SPV/Steamhammer (che è, per precisare, rimasta la stessa), un risultato del genere è assai difficile da comprendere. Un approccio musicale che virò con maggior forza e prepotenza sul lato romantic dei VS, omettendo di molto quello barbaric, ma il disastro era dietro l'angolo.



Ciò che accade dal 2015 (orientativamente) ad oggi, invece, è la follia pura. David decide di licenziare Frank Gilchriest in favore di una drum machine, decisamente meno impegnativa (e costosa) di un batterista in carne ed ossa, la scelta di relegare le chitarre sempre più nelle retrovie, optare per uno stile vocale ridicolo e che trovo difficile giustificare, puntando, come detto, tutto su un insopportabile falsetto e su sforzi di riproporre la voce potente degli anni Novanta, ma con il risultato di apparire inascoltabile. A ciò si deve aggiungere le dichiarazioni di proporre musica inedita nei vari album quando, ad esempio, su ‘Nocturnes Of Hellfire & Damnation’ vi sono delle ‘Black Sun-Black Mass’ o ‘Lucifer’s Hammer’ che sono delle riproposizioni, rimaneggiate, di canzoni anni 80’, aggiungendo anche l'inizio di quasi ogni canzone presente sul disco che inizia con gemiti, colpi di tosse ('Fallen Angels') e simili, che farebbero abbassare immediatamente le aspettative di chiunque. Poco tempo vengono pubblicati in un boxset due dischi spacciati per nuovi, tali ‘Ghost Harvest’ (che non consiglio neanche al mio peggior nemico) con ben TRENTASEI canzoni, canzonette ed intro per un totale di TRE ORE di nulla cosmico, tra urletti, strilli, produzione scandolosa, e musica che non può neanche essere chiamata tale. Ora, rispetto a quanto detto poco fa, i due lati della musica dei Virgin Steele qui si capovolgono, e prevale quello barbaric, ma c'è un minuscolo problema: Defeis non ce la fa più con la voce. E non è un problema leggero, che può essere messo a paragone con un Eric Adams 70enne ad esempio e su cui si sente la fatica su alcune performance vocali, ma che ancora comunque regge botta e si ascolta con piacere. No, qui parliamo di sofferenza sicura di chi ascolta, ma immagino anche di chi canta, con strofe interpretate cercando di rievocare i bei tempi andati, ma che talvolta risultano anche difficili da capire e intepretare, come 'Glamour'. Sull’ultimo album, ‘The Passion Of Dyonisus’ non mi esprimo dato che ho avuto già modo di scrivere il mio punto di vista nella recensione, che, se interessati a leggere, vi linko qui.



E’ difficile descrivere ciò che i Virgin Steele hanno rappresentato, e rappresentano ancora per me e nel mio percorso musicale, e che assieme ad altre band come W.A.S.P., Led Zeppelin, King Diamond e Manilla Road mi hanno “svezzato”. Allo stesso modo di come la loro musica deve essere incensata però, si deve avere l’oggettività di dire come i VS che ci troviamo davanti oggi, nel 2024, sia una band oramai morta e sepolta, ma che si rifiuta di dire basta continuando a scavarsi la fossa da sola. Come un dio che, alla fine dei suoi giorni, pensa di poter lottare ancora con la forza, il vigore e l’energia delle vecchie battaglie. Il desiderio è quello di vedere questo atteggiamento finire il più presto possibile, mentre la musica rimarrà lì, immortale, a testimonianza di ciò che questa band, e David Defeis, ha rappresentato per la musica tutta.
Articolo a cura di Francesco Metelli

Ultimi commenti dei lettori

Leggi la discussione completa
Inserito il 16 apr 2024 alle 11:46

Bell'articolo, bravo Francesco!