Copertina 8

Info

Anno di uscita:2021
Durata:54 min.
Etichetta:Supreme Chaos Records

Tracklist

  1. RATKING
  2. KYRIE ELEISON
  3. SERPENT MAGIC
  4. FOREVER INTO THE GROUND
  5. ORBITS
  6. CRUCIFER
  7. MOURNING STAR
  8. DEVILS IN THE NIGHT SKY
  9. OLTRETOMBA

Line up

  • Stefano "Stiv" Fiore: vocals
  • Domenico Mele: guitars
  • Dario "Captain" De Falco: bass
  • Max Marzocca: drums

Voto medio utenti

Si dice, da sempre, che il terzo album di una band sia quello fondamentale, una sorta di prova del nove, superata la quale, la via diviene tutta in discesa. Beh, se questo fosse vero, da oggi in poi per i The Ossuary dovrebbe davvero andare tutto liscio, perché la prova del nove è stata superata alla grande.

Seguo la band dalla sua nascita, da quando, cioè, Max e Domenico hanno deciso di mettere in naftalina i Natron, seminale death metal band italica, e cambiare drasticamente sonorità, decidendo di proporre una sorta di classic heavy metal, con fortissime venature doom, nella più canonica tradizione eighties.

Beh, quando si parla di musicisti scafati come loro, è lecito attendersi grandi cose, e così è stato, visto che il loro album d’esordio “Post mortem blues” è un disco incredibile, che si fa ascoltare con immenso piacere, e che è subito diventato un piccolo masterpiece in ambito doom/classic. Personalmente ho gradito un tantino di meno il seguente “Southern funeral”, per me un po’ meno inquadrato ed immediato del precedente, ed è per questo che ero molto curioso di ascoltare “Oltretomba”, terzo capitolo della saga, orchestrato ancora una volta dal malefico duo insieme ai fidi Stiv Fiore e Dario De Falco (anch’esso ex Natron).

Beh, che dire, questo album è un capolavoro! È formalmente perfetto, nove brani uno più bello dell’altro, dove l’enorme talento del quartetto viene messo totalmente al servizio dei brani, che si susseguono senza soluzione di continuità, ti rapiscono e ti inchiodano alla sedia per tutta la durata del disco.

Mele è il gran cerimoniere, macina riff su riff e dà il meglio di sè grazie ad una serie di assoli dal gusto melodico spiccatissimo. E a ruota c’è Fiore, che col suo timbro caldo e grazie ad un susseguirsi di melodie vocali azzeccatissime, rende i brani unici e immediatamente memorizzabili (unico appunto, avrei tirato un filo fuori la sua voce nel mix finale, a volte è leggermente al di sotto delle enormi chitarre, ma presumo sia stata una scelta specifica della band). Marzocca e De Falco, dal canto loro, fanno la propria parte regalandoci una sezione ritmica solidissima e decisamente fantasiosa, grazie in particolare a riuscitissime linee di basso che si incrociano ai riff di chitarra rendendo il suono pieno e rotondo.

L’album è un susseguirsi di piccoli classici, e la cosa che piace di più è constatare come i nostri siano riusciti a fondere in maniera perfetta gli andamenti doom dei brani con le melodie più tipicamente classic, senza scordarsi le influenze provenienti dal classico hard rock dei seventies. Non c’è una nota fuori posto, la produzione è degna di quelle di gruppi ben più blasonati, e come al solito vien da pensare che se la band fosse nata altrove, ora starebbe raccogliendo ben altri consensi, perché la caratura internazionale è cosa certa, inutile girarci intorno, ma sappiamo tutti le difficoltà che bisogna affrontare qui nel Bel Paese, ancor di più se si proviene dal profondo sud come loro (il gruppo nasce a Bari).

Si passa con disinvoltura da passaggi sulfurei ed ipnotici ad altri più diretti e rock ‘n’ roll, senza mai scadere nel banale. E quelle che possono essere, per molte doom metal band, il tallone di Achille, e cioè la ripetitività e la staticità, qui vengono completamente bypassate, grazie ad una sequela infinita di riff e melodie che rendono i brani variegati e mai domi.

Per dovere di cronaca vi dico quelli che, per me, sono i pezzi migliori dell’album: “Ratking”, sorniona e accattivante, intelligentemente posta in apertura, la title track, messa invece a fine album, che con i suoi 8 minuti assume le fattezze di una mini suite e che racchiude un po’ tutte le sfaccettature della band, l’altrettanto lunga “Orbits”, dal sapore decisamente acido, e “Kyrie Eleison”, nera come la pece.

Ma ripeto, vi ho elencato questi quattro brani solo per dovere di cronaca, in quanto l’album non solo non ha filler, ma va assolutamente ascoltato nella sua interezza, per godere appieno del trip sonoro nel quale vi scaraventano i The Ossuary, che, è bene ribadirlo, meriterebbero ben altri riconoscimenti, in quanto stanno una spanna abbondante al di sopra di tanti loro colleghi italici ben più illustri e fortunati.
Recensione a cura di Roberto Alfieri

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