Copertina 7

Info

Genere:Prog Rock
Anno di uscita:2017
Durata:54 min.
Etichetta:InsideOut Music

Tracklist

  1. PROLOGUE (DEEP SLEEP)
  2. AWAKENINGS
  3. SIGMA
  4. IN FLORAL GREEN
  5. EVERGLOW
  6. FALSE LIGHTS
  7. SYMBOLIC
  8. THE DIVINE ART OF BEING
  9. THE BIG DREAM
  10. HELLO WORLD GOODBYE
  11. EPILOGUE (SEA BEAMS)

Line up

  • John Mitchell: vocals, guitar, bass, keyboards
  • Nick Beggs: bass
  • Craig Blundell: drums

Voto medio utenti

L'instancabile John Mitchell (Frost*, It Bites, Arena, Kino) ha trovato anche il tempo di dare un seguito al primo album marchiato Lonely Robot "Please Come Home" datato 2015. La saga dell'Astronauta (prevista dal chitarrista come una trilogia formalmente "slegata") giunge qui al secondo capitolo con questo "The Big Dream", che vede il nostro protagonista risvegliarsi dopo un lungo sonno criogenico in un ambiente dove si ritrova circondato da uomini con teste di animali.

Senza voler entrare nel merito delle scelte liriche di Mitchell, si può tranquillamente dire che il sound di questo full-length si rifà in modo palese alle band sopraccitate, aggiungendo (senza troppa convinzione) alcuni elementi che dovrebbero caratterizzarne l'originalità.

L'iniziale "Deep Sleep", sintetica e narrata, sfocia nella discreta "Awakenings", a cavallo tra gli ultimi Frost* e i Genesis di Ray Wilson. "Sigma" parte dal riff di "Stratus" di Jeff Beck (o di "Safe From Harm" dei Massive Attack se preferite) per evolvere rapidamente in un brano più solare e progressivo (soprattutto nella parte strumentale). La ballad pianistica "In Floral Green" è il primo di una serie di tributi all'opera di Peter Gabriel, mentre "Everglow" non può non ricordare i brani più tirati degli Arena. "False Lights" si distingue per l'intermezzo denso e carico (Blundell, che vorrebbe emulare Harrison e Minnemann, mi sembra spesso invadente, ma probabilmente è una mia impressione) e prelude alla più anonima "Symbolic", salvata giusto dall'ottimo solo di Mitchell. Nella squisita "The Divine Art Of Being" si sente ancora l'influenza del primo frontman dei Genesis, ma è la titletrack la vera sorpresa di quest'opera: otto minuti epici e sinistri, con armonie che si rifanno tanto a Steve Hackett quanto ai King Crimson di "Starless & Bible Black" e "Red" (sarà l'abuso del modo lidio), con un pizzico di "Dune" (ascoltare per credere). Da "Hello World Goodbye" emerge il groove di "Mama", prima della bella apertura centrale che ci porta alla conclusiva e inaspettata "Sea Beams", epilogo dal carattere sinfonico e cinematografico.

In conclusione: ci sarà pure un motivo se John Mitchell è ancora in attività dopo tutti questi anni, no?

Recensione a cura di Gabriele Marangoni

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