Mary sposami.
No vabbè parto così, giusto per mettere in chiaro le cose più importanti fin da principio: io amo
Mariangela Demurtas. Platonicamente in primis e successivamente come artista, ma il mio apprezzamento per la vocalist sarda è decisamente alto.
E "
Darkest White", settima fatica in studio dei norvegesi
Tristania, non fa che aumentare questa stima nei confronti della nostra portabandiera, essendo forse l'album più bello dal punto di vista vocale della carriera degli scandinavi.
Non solo grazie a Mary (sposami), che comunque sciorina una prestazione davvero fantastica, ma anche alle ottime prove dei suoi scudieri nordici:
Anders Høyvik Hidle, fondatore e chitarrista principale della band, prende definitivamente le redini del growl e dello scream in maniera eccelsa, riempiendo di oscurità un quadro vocale completato dalle clean vocals di
Kjetil Nordhus che, a dispetto della notevole stazza, ci fa dono di una voce calda e morbida, a fare da contraltare a quella di Anders (in questo "
Lavender" risulta uno splendido esempio).
Dal punto di vista prettamente musicale non ci sono grossissime novità rispetto a "Rubicon", anche se si avverte una certa linearità in più nelle canzoni, cosa che favorisce decisamente un ascolto, soprattutto quello più casuale, che sull'ultimo album poteva risultare a volte difficoltoso a causa di alcuni passaggi eccessivamente arzigogolati.
Le tracce qui si susseguono solide e decisamente ben strutturate, capaci ognuna di catturare l'attenzione dell'ascoltatore con il loro mix di aggressività e carica emozionale: se non vi vengono i brividi ad ascoltare un brano come "
Cypher", ad esempio, vuol proprio dire che avete sbagliato disco.
Se devo però eleggere una canzone simbolo di questo disco, accanto alla sopracitata "Cypher" metto decisamente l'iniziale "
Requiem", brano che si appoggia quasi interamente su Mariangela, la quale per tutta risposta dona tutta se stessa e la sua meravigliosa voce, esplodendo in un ritornello di quelli che ti rimangono in testa per ore ed ore.
Merita senza dubbio una citazione anche la conclusiva "
Arteries" la quale, per la struttura strofa ruvida/ritornello pulito sembra strizzare l'occhio al metalcore più moderno, salvo poi rivelarsi in tutta la sua gotica decadenza con lo scorrere dei minuti e degli ascolti.
"Darkest White" insomma risulta essere un deciso passo in avanti rispetto al più recente passato, restituendoci una band solida e assolutamente convinta dei propri mezzi. Un album monolitico e senza cadute di stile, che può essere la pietra angolare su cui costruire un roseo futuro.
Quoth the Raven, Nevermore..