Copertina 7,5

Info

Past
Anno di uscita:1969
Durata:33 min.
Etichetta:Chrysalis Records

Tracklist

  1. BAD SCENE
  2. TWO TIME MAMA
  3. STONED WOMAN
  4. GOOD MORNING LITTLE SCHOOLGIRL
  5. IF YOU SHOULD LOVE ME
  6. I DON’T KNOW THAT YOU DON’T KNOW MY NAME
  7. THE STOMP
  8. I WOKE UP THIS MORNING

Line up

  • Alvin Lee: guitars, vocals
  • Leo Lyons: bass
  • Chick Churchill: organ, piano
  • Rick Lee: drums

Voto medio utenti

“La chitarra più veloce del rock” . Questa definizione, affibbiata dai giornalisti americani al venticinquenne Alvin Lee, britannico di Nottingham, dopo la sua vertiginosa e leggendaria versione di “I’m going home” al festival di Woodstock (1969), rimane forse la migliore sintesi delle qualità e dei limiti di una delle più grandi band di rockblues bianco a cavallo degli anni ’60 e ’70: i Ten Years After.
Il gruppo nasce ufficialmente nel 1966, a Londra, con l’ingresso del tastierista Michael “Chick” Churchill e l’adozione del monicker con il quale diverrà famoso, ma Alvin e Rick Lee (non parenti, il vero nome del chitarrista è Graham Barnes) ed il bassista Leo Lyons, sono attivi dalla fine del decennio precedente. Il quartetto propone rockblues elettrico incentrato sul talento chitarristico del leader, il quale si cimenta anche come cantante, e comincia a farsi un nome come ottima “live-band” girando i clubs della capitale britannica. Vengono notati dai tipi della Decca, che li affidano all’etichetta progressiva Deram per la quale esce il primo Lp omonimo, nel 1967.
E qui si verifica ciò che diventerà una costante della carriera dei Ten Years After: il disco non è male, contiene un bel repertorio di brani originali ed alcune cover di blues classico, ma non rispecchia affatto le torride e debordanti improvvisazioni che Lee e soci sono in grado di offrire nei loro shows. Infatti l’esordio lascia molto freddi gli appassionati inglesi, ma riscuote un discreto successo negli States. Così il gruppo viene ingaggiato per un tour americano, dove esordisce quale spalla di Janis Joplin ed infiamma le folle con le torrenziali fughe del suo chitarrista, dall’impostazione a metà strada tra Hendrix e Clapton. Da uno di questi concerti viene ricavato il secondo disco, “Undead” con cinque lunghe jams su tradizionali giri rockblues, che probabilmente rimane la miglior testimonianza di quale era il reale potenziale del quartetto.
Le quotazioni dei TYA salgono nettamente anche in patria, perciò nel 1969 escono addirittura due album, peraltro molto simili: “Stonedhenge” e questo “Ssssh”. Sicuramente i migliori lavori realizzati in studio, insieme al successivo “Cricklewood green” (1970). Ci mostrano comunque il lato meno aggressivo e selvaggio della formazione londinese; un profilo più pulito ed organizzato, che insieme alle tradizionali cavalcate della lead guitar propone incursioni in territori insoliti e qualche sonorità dal taglio melodico.
Esattamente quello che troviamo tra i solchi del presente lavoro, dove si alternano pezzi brevi e graffianti che seguono la scia dei Cream (“Bad scene, Stoned woman”), sostanziose digressioni bluesy ricche di groove ed appetitose porzioni chitarristiche (“If you should love me” e le hendrixiane, splendide, “Good morning little schoolgirl” e “I woke up this morning”) e brevi tentativi di attirare forse un pubblico più ampio e radiofonico (“Two time mama” e soprattutto l’acustica “I don’t know that you don’t know my name”). Ma non sono certo un paio di piccoli episodi ruffianotti a destare perplessità, quanto la sensazione che i testimoni dell’epoca abbiano visto la band scatenare ben altra energia e furia jammistica osservandola sul palco. Un’irruenza baldanzosa e sfacciata che anche “Ssssh”, per tutto il resto assolutamente positivo, non riesce a ricreare.
La parabola dei Ten Years After si chiuderà verso la metà dei ’70, quando le schitarrate volumetriche dell’hard rock e gli arabeschi classicheggianti del progressive hanno già decretato la fine del rockblues ortodosso. Il bravo Alvin Lee darà vita ad una estesa carriera solista, con più bassi che alti ma proseguita con dignità grazie al supporto di una manciata di incrollabili fans personali.

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