(27 giugno 2010) Gods of Metal 2010 - Day III - 27 Giugno

Info

Provincia:TO
Costo:40 €
Per la terza giornata del Gods of Metal, sulla carta la più prestigiosa visto il lotto dei partecipanti, la pattuglia torinese di Metal.it si presenta al gran completo. Infatti, insieme agli onnipresenti Ermo ed Aimax, si segnala la presenza del glorioso, buon vecchio Fabrizio “Stonerman”, il quale emerge dal suo eremo appena sente odore di concerti come minimo di ottimo livello. E questa torrida domenica di Giugno dimostrerà di esserlo, pur nel contesto di un festival un po’inferiore alla propria tradizione.
All’apparenza anche la scaletta odierna regala qualche dubbio, con l’accostamento in parte casuale ed in parte forzato di nomi assai diversi per carriera, stile, notorietà e tipo di audience. Ma, tranne alcune eccezioni, il risultato sarà comunque positivo. A cominciare dai semisconosciuti svedesi Sabaton, ai quali tocca l’ingrato compito di dare il via alla kermesse all’ora di pranzo, con l’arena ancora mezza deserta e trasformata in una fornace da un sole tanto splendente quanto feroce…..
(Fabrizio “Stonerman” Bertogliatti)

Sabaton
Buttati nella mischia alle 11 del mattino, i Sabaton si trovano un’ottima accoglienza sotto il palco (addirittura viene esposto uno striscione tutto per loro!), che sorprende anche i musicisti svedesi. Non sono certo degli innovatori e probabilmente nemmeno i migliori nel settore, ma il loro Heavy Metal, ha un bel tiro, e soci sono simpatici e riescono a sfruttare appieno la mezzora messa a loro disposizione, svariando tra episodi più o meno recenti (“Ghost Division”, “Coat Of Arms” e “Saboteurs”) ed alcuni estratti dai primi lavori, come la dirompente “Primo Victoria” o la conclusiva “Metal Machine”. I Sabaton perdono un po’ della loro immediatezza solo durante “Cliffs Of Gallipoli”, ma anche in questo episodio, Joakim Broden, cantante del gruppo che sfoggia un improponibile taglio alla moicana e occhiali a specchio, e compagni si fanno apprezzare, approfittando di quella simpatia istintiva che riescono a infondere i Sabaton.
Ottimo inizio per l’ultima giornata del Gods.
(Sergio “Ermo” Rapetti)

Labyrinth
Freschi di pubblicazione del loro ritorno “Return to heaven denied part. 2”, i Labyrinth salgono sul palco subito dopo dei sorpresissimi Sabaton (che non si capacitano di una risposta del pubblico così entusiasta in un orario tanto “singolare” per un concerto!), in una situazione discretamente favorevole.
L’audience è già “calda” (in tutti i sensi) e la band italiana ci tiene a non lasciarla raffreddare dimostrando tutte le sue qualità in una circostanza comunque prestigiosa, infischiandosene del fatto di essere stati collocati in una posizione di setlist non proprio invidiabile (“Ci hanno detto, suonate presto. E chi se ne frega, siamo al GOM!”, queste le parole di Tiranti).
Eppure, qualcosa non funziona a dovere. Forse è colpa dei piccoli problemi tecnici che hanno spento un po’ l’entusiasmo dei nostri, ma il risultato è apparso leggermente sotto tono, nonostante l’esecuzione di “Save me”, “In the shade”, “New horizons”, “Moonlight” e della nuova “A chance” siano valutabili, alla fine, come più che dignitose, con il solito Tiranti e il “figliol prodigo” Thorsen sugli scudi. Rilevando con piacere anche la presenza di una figura “familiare” come quella di Sergio Pagnacco al basso, tecnicamente impeccabile come sempre nei suoi Vanexa, non mi resta che annotarmi due promemoria sull’ideale taccuino rosso delle cose importanti da fare: approfondire l’ascolto di “Return to heaven denied part. 2” e cercare al più presto di rivedere dal vivo i Labyrinth, sperando in una circostanza maggiormente felice. Rivedibili.
(Marco “Aimax” Aimasso)

Devin Townsend Project
Ammetto di essere da sempre prevenuto verso quei musicisti che puntano più sulla propria individualità che a far parte di un vero e proprio gruppo. Una sensazione che oggi esce rafforzata, dato che se Devin si conferma un musicista istrionico e talentuoso, gli altri musicisti si limitano a fargli da accompagnamento.
Questo cantante e chitarrista canadese, al di là delle mossette ed ammiccamenti che rivolge al pubblico, e nei tre quarti d’ora a sua disposizione mostra uno spaccato del suo repertorio, sia nei due dischi dei Devin Townsend Project (tra questi le iniziali “Addicted!” e “Supercrush!”) , sia i lavori “solisti”, come ad esempio l’album “Ziltoid the Omniscient”, dal quale recuperano la conclusiva “By Your Command”.
Molto meglio di quanto teme.. pensassi!
( “Ermo”)

Anvil (Stage 2)
L’abisso temporale tra il modernismo di Devin Townsend e la vecchia scuola degli Anvil, ha un effetto quasi traumatico sul sottoscritto. Ma devo riconoscere che entrambi, pur con caratteristiche quasi opposte, mi hanno lasciato una buona impressione.
La formazione canadese, attiva fin dai primissimi Anni Ottanta, non ha mai ottenuto il successo che forse meritava, ma resta un nome importante tra i pionieri dell’Heavy Metal. Gli Anvil hanno dato il meglio nella fase iniziale della carriera, proseguendo poi tra alti e bassi, con qualche interruzione ma sempre dignitosamente, fino ai nostri giorni.
Navigato e professionale, il trio capitanato dal chitarrista/cantante Steve “Lips” Kudlow sfrutta al meglio la propria mezz’ora con una manciata di hits, in gran parte risalenti al periodo d’oro della band. Classico e puro HM, del genere di Maiden, Saxon, Krokus, More e quant’altri, con due gioielli d’antiquariato come “666” e “School love” che hanno il compito di scaldare il pubblico e di far carburare il gruppo. “Lips” sfoggia subito il suo famoso sorriso ammiccante, che non lo abbandonerà per tutto il concerto, mentre la coppia ritmica, più prosaicamente, si occupa soltanto di indurire ulteriormente le cadenze dei brani. Spicca la lunga e quasi doomeggiante “This is thirteen” che rappresenta il relativo presente dei canadesi, trattandosi della title-track dell’ultimo album che risale a tre anni fa. La seguente “Mothra” è invece un grande cavallo di battaglia fin dal lontano 1982. L’avventura del terribile e poderoso mostro, emulo dei vari Godzilla, che terrorizza e distrugge Tokyo, scatena l’entusiasmo dei presenti. Specie quando il chitarrista americano si esibisce nel suo storico assolo per chitarra e vibratore, specialità tecnica non proprio oxfordiana ma di sicura e decennale efficacia.
Il finale si apre con la poco nota “White rhino”, che racchiude un breve ma intenso solo del batterista Robb Reiner, eterno compagno di Ludlow sin dagli albori della carriera. Ma la vera conclusione è affidata alla mitica “Metal on metal”, anch’essa classe ’82, canzone che come poche altre ha segnato l’epoca forse più affascinante di questo genere musicale.
L’applauso finale del GoM è sia un tributo alla bravura, simpatia e dedizione degli Anvil, che un caldo augurio di proseguire la loro carriera il più a lungo possibile.
(“Stonerman”)

Van Canto (Stage 2)
Non ti curar di loro, ma guarda e passa oltre…
Questi teutonici “metallari per caso”, si dilettano a fare metal a cappella, dato che l’unico strumento suonato è la batteria. E non solo massacrano alcune cover, come “Wishmaster" dei Nightwish, "Kings Of Metal" dei Manowar o “Master Of Puppets” dei Metallica, ma si cimentano anche in alcune loro composizioni.
Inutili.
(“Ermo”)

Saxon
Prendendo spunto dal calcio, si può dire che i Saxon in Italia giochino in casa. Sono ormai innumerevoli le volte in cui la band britannica ha calcato i palchi della nostra penisola, dagli esordi fino ad oggi. Da headliners, co-headliners, da semplici spalle o piazzati nel pieno di un cocente pomeriggio torinese, hanno sempre mostrato grande rispetto verso il pubblico tricolore, con prestazioni mai al di sotto del loro standard qualitativo. Tale affetto verso la nostra patria è stato ricambiato con un consistente seguito di fans, che non perde occasione di sostenere il quintetto dello Yorkshire. Insomma, assistere ad un loro concerto è come l’incontro quotidiano con un caro amico: sai già a memoria cosa ti dirà, ma ti mancherebbe da morire se non potessi più vederlo.
Quindi, anche al Gods ’10, nessuna sorpresa. Una micidiale raffica di classici che ogni appassionato di metal dovrebbe avere scolpiti in testa: da “HM thunder” a “Motorcycle man”, da “To hell and back again” a “Princess of the night”. Ed ancora la solenne “Crusader” e le travolgenti “Wheels of steel” e “Denim and leather”, quest’ultima dedicata con emozione allo scomparso e compianto R. J. Dio. In mezzo a questo straordinario repertorio di brani storici anche una “Live to rock” tratta dal recente “Into the labyrinth”, a testimonianza che il gruppo ( in particolare la premiata ditta “Biff” Byford e Paul Quinn, insieme fin dal 1977!!..) non ha mai smesso di comporre canzoni di pregevole fattura.
Ora, come sempre, non resta che attendere il prossimo ritorno dei rockers inglesi, per risentire questi meravigliosi inni ancora una volta.
(Fabrizio “Stonerman” Bertogliatti)

U.D.O.
Era un sacco di tempo che non assistevo ad un concerto di Udo Dirkschneider, e se gli ultimi dischi degli U.D.O. non sempre mi hanno convinto del tutto, dal vivo è tutta un’atra cosa.
Certo, non mancano episodi risalenti ai bei tempi degli Accept, ma vengono riservati al finale, un gran bel momento grazie ad una coinvolgente “Metal Heart” ed alla canzone manifesto “Balls To The Wall”. Purtroppo mancano all’appello tanti, troppi, altri classici, ma è comprensibile il loro desiderio di non continuare vivere nel passato, e così godiamo delle scariche d’energia delle nuove “The Bogeyman” e “Dominator” e delle meno recenti “Animal House” e della sempre stupenda “Man And Machine”.
Gli anni passano ed Udo forse ha perso un po’ di voce (ma l’ha veramente mai avuta?) ma di certo non la sua mimetica e soprattutto quella passione che ha trasmesso ai compagni di viaggio, con il “nostro” Francesco Jovino che si è recentemente unito a Fitty Wienhold, Igor Gianola e all’atro reduce degli Accept, Stefan Kaufmann.
They’re rebels!
(“Ermo”)

Cannibal Corpse
Dopo una massiccia dose di metal classico, Anvil, Saxon ed U.D.O. tocca ad una dose di Death Metal Brutale ed assassino, garantita dai Cannibal Corpse che a forza di dar mazzate a d destra ed a manca hanno conquistato un buon posto nel bill.
Per questa rodata (hanno da poco superato le due decadi d’attività) formazione statunitense, vale un po’ lo stesso commento fatto per gli Amon Amarth, pestano, sudano e fanno sudare, ma non attirano più di tanto i miei favori.
Fortunatamente molti altri dei presenti davanti al palco (e diversi anche sopra le transenne presidiate dalla security) si lasciano travolgere dall’assalto vocale di George Fisher e dalle bordate di brani come “Sentenced To Burn” , “Skull Full Of Maggots” o “Hammer Smashed Face”.
Un vero massacro. Sonoro e fisico.
(“Ermo”)

Soulfly (Stage 2)
Alla fine del loro set sento solo commenti entusiasti e vedo quasi esclusivamente volti arrossati, stanchi ma soddisfatti.
Segno che i Soulfly hanno centrato in pieno il loro obiettivo, a dispetto di condizioni di esibizione non proprio ideali.
E allora penso che forse sono io troppo esigente, perché probabilmente mi aspettavo troppo da quella che è considerata come una delle personalità più rappresentative del metal “moderno”, uno dei pochi ad aver contribuito con l’innovazione e la versatilità alla “causa”.
Ebbene, il Max Cavalera che osservo (con difficoltà, vista la folla) sul palco “minore” del Colonia Sonora non solo non mi pare un demiurgo, ma non mi sembra nemmeno un musicista esattamente “in forma”, tanto da temere dopo un paio di pezzi addirittura per la sua incolumità. Il fisico è appesantito e la sua voce è un urlo potente ma apparentemente privo di passione e d’intensità espressiva. La band e il pubblico, però, lo sostengono con furente determinazione, ed ecco che lentamente anche l’ex leader dei Sepultura viene contagiato da questa sorta di trance da rito collettivo, ritrovando un minimo di quella risolutezza e di quella forza necessarie ad esprimere al meglio la tempesta emotiva che la sua musica è in grado di stimolare.
Una prestazione in crescendo, dunque, che parte con l’esclusiva brutalità di “Blood fire war hate” e “Prophecy”, passa per le devastanti “Back to the primitives”, “Seek n’ strike” e “Kingdom”, si concede citazioni “importanti” (“Walk” dei Pantera, durante l’esecuzione di “Last of the Mohicans”) e vagamente superflue tribal jam, scatena gli entusiasmi con pietre miliari in arrivo dal passato come “Rufuse/Resist” e “Attitude” e finisce per dissipare le ultime energie rimaste nei cuori e nelle gambe dei fan piazzando in coda di concerto le deflagranti esplosioni di “Unleash” e “Eye for an eye” (introdotta da scampoli di “Jumpdafuckup”). Qualche significativa perplessità, come anticipato, rimane, e tuttavia il “fuoco sacro” che alimenta i Soulfly e Max Cavalera sembra ancora presente, forse solo un po’ più debole e bisognoso di cura e attizzamento. Rispetto.
(“Aimax”)

Bullet for My Valentine
Suonare prima dei “mostri sacri” Motorhead è una bella sfida per i Bullet for my Valentine.
La loro nomea di gruppo fashion metal per ragazzine facilmente eccitabili, non li aiuta per niente ed ecco che le prevedibili contestazioni dalla platea più “generalista” o intransigente non tardano a materializzarsi.
Loro non si scompongono e suonano con determinazione e padronanza per il “loro” pubblico assiepato tra le prime file, di età media piuttosto bassa, con una nutrita presenza femminile.
Forse è davvero una questione di “generazione” (o di “genere”, nel senso di femminile), ma personalmente trovo le canzoni degli inglesi parecchio monotone, tutte molto simili, pur nel loro (sterile) tentativo di variare i temi espressivi e di mescolare metal ed emo-core.
Dal vivo acquisiscono un pizzico d’impatto superiore e nonostante quest’aspetto, la noia non tarda troppo a manifestarsi, in una sequenza di giudizi che passano da “gradevole” a “soporifero” abbastanza repentinamente, qualunque sia la selezione dei brani.
Insomma, un paio di pezzi si sopportano anche con un certo diletto, apprezzando l’adeguatezza tecnica del gruppo, l’impegno che profonde sempre nelle sue manifestazioni, ma poi l’unica reazione plausibile è la più classica “bravi, ma basta”.
A beneficio dei loro sostenitori (che ormai mi odieranno!) cito qualche pezzo eseguito stasera:
“Your betrayal”, “Fever”, “Waking the demon”, “Tears don’t fall”, “4 words (to choke upon)”, “The last fight”, “Scream aim fire”, “Begging for mercy”, “Hand of blood” e “Alone”, nella speranza di non aver commesso errori di trascrizione da un taccuino in cui l’unica annotazione certa è “sono tutte uguali”! Anonimi.
(“Aimax”)

Motorhead
Finalmente è scesa una rinfrescante serata anche su Collegno. Gli uomini di Metal.it, pur rotti alle esperienze più estreme, sono un pochino boccheggianti ed avvizziti, ma raccolgono le ultime energie per il momento clou della lunga giornata. Anche i giovani Bullet For My Valentine hanno concluso la loro discussa prova, in parte osannati ed in parte criticati. Con tutto il rispetto per loro, stanno per salire sul palco personaggi di ben altro calibro, che hanno plasmato la storia della musica heavy.
E’il momento dei Motorhead, nome che per il sottoscritto significa passione, emozione e gioventù, ma anche un piccolo rammarico. Infatti, pur seguendo il gruppo dalla fine dei ’70, per una serie di bizzarre casualità non ho mai avuto il piacere di vederlo dal vivo, caso forse unico tra i big della musica che ascolto da oltre trent’anni. Quindi attendo con particolare gioia questo concerto e, quando il trio esce alla ribalta accolto dal boato della folla, ho la certezza che nulla potrà più privarmi dell’incontro con la band inglese.
Sebbene come fan della prima ora abbia adorato in modo particolare la line-up originale, con Eddie “Fast” Clark e Phil “Animal” Taylor, non posso che inchinarmi di fronte alla bravura, affiatamento ed esperienza dell’attuale formazione, che vanta ormai una carriera ventennale e molti, ottimi, albums. Ma la vera icona, il “deus ex machina”, resta sempre e comunque lui: l’intramontabile, inimitabile, ultra-carismatico Ian “Lemmy” Kilmister, attempato gentiluomo britannico che domina la scena rock internazionale fin dai tempi di Rockin’Vickers, Sam Gopal e Hawkwind, quando buona parte del suo attuale pubblico era ben lontana dal venire al mondo (..e Lemmy, nel corso del concerto, farà una battuta proprio su questo…nda.).
Certo adesso i movimenti sono ridotti all’essenziale, mentre la voce rimane accettabile perché non era cristallina nemmeno in passato, però lui è davvero uno di quei rari personaggi capaci di riempire la scena solo con la sua presenza. A fare un po’di spettacolo ci pensa il mio quasi coetaneo Phil Campbell (..classe ’61, mi sopravanza di un anno…nda), che trascina la sua chitarra avanti e indietro, macinando riffs granitici ed assoli al fulmicotone. Neppure un piccolo problema tecnico alla batteria del mio quasi coetaneo Mikkey Dee (..classe ’63, lo sopravanzo di un anno…nda) riesce ad intaccare la tensione e l’energia dello show, che durerà poco meno di un’ora e mezza.
Tra i brani in scaletta, estratti dal monumentale repertorio motor-hediano, sono immancabilmente quelli più datati a scatenare maggiore entusiasmo nel pubblico. Ed il trio ne propone in abbondanza, dall’anthemica “Iron fist” posta in apertura del concerto, alla formidabile accoppiata “Stay Clean/Metropolis”, brani che hanno segnato un’intera generazione di rockers. Ma ci sono anche episodi meno “classici”, se così si può dire riguardo ai Motorhead, come “Over the top” e la marziale “In the name of tragedy”, o ancora “I Got Mine” dal discusso “Another perfect day”, unico disco con Brian “Robbo” Robertson (ex-Thin Lizzy) alla chitarra.
Giungono poi i momenti solistici dedicati a Campbell e Dee, tradizionale consuetudine per una formazione di vecchia scuola, ma anche utili per far rifiatare il leader e prepararlo all’incendiario finale. Infatti Lemmy rientra ed annuncia che è tempo di fottuto rock’n’roll, estraendo dal cappello una inattesa ( perlomeno per me..) “Going to Brasil”, dal tiro semplicemente mozzafiato. Segue la lunga e poderosa versione di “Killed by death”, che chiude la parte regolare del concerto col suo memorabile ritornello.
Il bis è uno spaccato di storia dell’heavy rock, con la celeberrima ed eterna “Ace of spades” seguita a ruota dalle telluriche ripartenze di “Overkill”, canzoni che hanno alimentato intere schiere di musicisti fino ai nostri giorni. Hits planetari ed intramontabili da trent’anni a questa parte, testimonianza della grandezza dei Motorhead. Un nome al quale solo pochi altri giganti della musica possono essere accostati senza sfigurare.
Al termine del GoM ’10, si esce con la certezza che soltanto il tempo potrà un giorno fermare questa meravigliosa “rock’n’roll machine”, ma la sua leggenda resterà intatta finchè esisterà un solo appassionato di vera musica rock. Comunque, conoscendo la tempra di Lemmy e soci, il momento dei bilanci finali pare, per fortuna, ancora molto lontano.
(“Stonerman”)

Per un consuntivo della tre giorni di Collegno (TO) devo necessariamente lasciare spazio ad Ermo e Aimax, presenti dal primo all’ultimo secondo ( neppure le Guardie Rosse erano così stakanoviste…nda!). Per quanto mi riguarda, giudico nell’insieme positivamente la parte domenicale, anche se va detto che il lotto dei partecipanti non era forse quello che ci si attende dal principale festival hard’n’heavy nazionale. Mi permetto di consigliare, per il prossimo anno, una media di formazioni di maggior richiamo e, possibilmente, maggiore uniformità nella proposta delle varie giornate.
(Fabrizio “Stonerman” Bertogliatti)

Vista la mancanza dei GRANDI nomi di richiamo, la mia prima sensazione era stata quella di trovarmi al cospetti di un ottimo “Evolution” più che ad un vero e proprio “Gods of Metal”.
Al termine dei tre giorni, questa impressione iniziale si era trasformata in una certezza, come quella che Torino è in grado di fare da cornice ad un festival importante – l’organizzazione dell’evento non mostrato alcuna crepa – e mi auguro che questo appuntamento sia riproposto l’anno prossimo!
(Sergio “Ermo” Rapetti”)

Per le mie considerazioni generali vi rimando all’introduzione relativa al primo giorno di questo singolare GOM, e, unendomi all’amico Ermo nell’auspicare una riproposizione dell’”esperimento” anche in futuro, non posso che pormi il suddetto quesito: anche le Guardie Rosse avranno percepito così presenti, anche a distanza di giorni, i postumi del loro stacanovismo?
(Marco “Aimax” Aimasso)

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