Arriva tra le nostre mani il cd/dvd che immortala il grande ritorno di
Mike Portnoy nei
Dream Theater, band da lui fondata, costruita, perfezionata, amata, abbandonata e poi ritrovata, come un novello Ulisse del metallo. E la musica che andiamo ad esaminare celebra il primo tour di rientro di Mike, che i DT fanno coincidere con il quarantennale della nascita della band, cosa che peraltro non ho mai capito: è come se, invece di festeggiare il compleanno, uno festeggiasse la data del concepimento, quando i suoi genitori si sono dati da fare. Ma è così da sempre, e invece di partire dal 1989 di “
When Dream and Day Unite”, primo parto discografico della band, i drimoni partono da quel lontano 1985 quando tutto nacque tra le mura del Berklee College.
Ma, come diceva un grande filosofo,
chi se ne fotte, parliamo di musica e vediamo se ha senso comprare questo cd/dvd.
Intanto, la fredda cronaca: abbiamo sotto il naso ben due ore e 27 minuti di musica, con una scaletta che obiettivamente non poteva essere migliore (sì, che poteva, ma accontentatevi un po', cribbio), dove si pesca un po' da tutta la storia della band, anche con pezzoni storici (l’opener
Metropolis, la fantastica
Octavarium nella sua interezza) e versioni rare (La
Hollow Years qui eseguita è quella della prima stesura, prima che la produzione tagliasse e ricucisse per renderla Mtv-friendly). Non mancano brevi accenni a “
Parasomnia”, il nuovo album che nel frattempo aveva debuttato con “
Night Terror”, qui presente con la sua intro strumentale. Il finale, com’è giusto che sia, è riservato ai grandi classici: “
The Spirit Carries On” e quella “
Pull me Under” cui i drimoni devono veramente tanto.
Passiamo adesso alle performances. Niente da dire su Rudess e Myung, sempre chirurgici e quasi robotici; Petrucci, visto e sentito con i miei occhi, è diventato umano e ogni tanto ci mette una nota un po' tirata via, ma è sempre il solito fenomeno. Lo zio Mike, invece, dà uno schiaffo in faccia al recente passato della band, e in un colpo solo toglie il click, le backing vocals in traccia e quel senso di ‘esecuzione meccanica’ che aveva contaminato l’era Mangini. Anche nei pezzi del suddetto MM, Mike P. mantiene la sua attitudine molto musicale, molto fresca, e davvero sembra che il tempo per lui non sia mai passato.
Tutto bene, dunque? N O . Signore e signori, l’elefante nella stanza:
James LaBrie. Apprezzato (sono ironico) anche da vivo a Bologna, James non ne ha più. E hai voglia in studio a sistemarlo, hai voglia a cambiare le linee melodiche per adattarle al tuo range attuale (questa è una cosa normalissima e comune tra tutti i singers con 40 anni di vita sulle corde vocali), qui il problema è che JLB è fuori nota anche sui passaggi più bassi e accessibili, segno per chi vi scrive di un mai ammesso (almeno pubblicamente) problema uditivo, per cui James non si sente bene e va completamente a funghi. Un vero peccato, anche perché la cosa stona (battutona!) sempre di più, visto che gli altri 4 non ne vogliono sapere di invecchiare e continuano a suonare come delle belve. L’imbarazzo è sempre misto al dispiacere, in questi casi, ma la prestazione di James non è più giustificabile.
La parte video, contenuta nel dvd, è quella che forse merita di più: i DT ci danno dentro di laser e proiezioni, forse un filo troppo psichedeliche, ma la goduria maggiore è veder interagire i nostri come se avessero ancora 20 anni, sicuramente merito del ritorno di zio Mike al suo posto. Ricordo ancora con un senso di cringe l’ultima volta che li vidi con Mangini, ognuno perso nel suo click, interazione zero, cazzimma meno 2000. Ma anche in questo caso, è James il pesce fuor d’acqua, assolutamente non in grado (non lo è stato mai, la cosa non è cambiata) di essere un frontman convincente: quando canta per carità di dio, quando non canta o se ne va (ci può stare nelle lunghe parti strumentali, non SEMPRE) o si mette in disparte come un anziano in fila dal farmacista.
Insomma, tiriamo le somme: “
Quarantième: Live à Paris” (che brutto nome) ha senso di esistere solo come celebrazione del ritorno di Mike Portnoy nella band, ha un po' di appeal per qualche canzone bella da risentire live, ma viene affossato dall’ennesima, pietosa esibizione di un JLB senza colpa, se non quella di prendere coscienza del tempo che è inesorabilmente passato e dar vita ad una buona carriera solista, concentrandosi su brani più accessibili e meno forzati per lui. Per il resto, solita fuffa.