Ho sempre considerato gli
Omnium Gatherum come una sorta di cugini o, se preferite, di fratelli minori (MOLTO MINORI, a essere sinceri) degli
Insomnium, già da molto prima che il chitarrista
Markus Vanhala iniziasse ad offrire le sue prestazioni anche ai secondi; eppure, in questo nuovo capitolo discografico, la band di Kotka sembra somigliare maggiormente agli ultimi
Amorphis (tanto per rimanere in terra finnica), piuttosto che a quella di Nillo Sevänen e Ville Friman.
Quanto detto però, non dev’essere inteso tanto sotto il profilo meramente stilistico, quanto dal punto di vista delle caratteristiche compositive che stanno alla base di
May The Bridges We Burn Light The Way (titolo sobrio) e che ricordano il tipico “modus operandi” degli ultimi anni di Holopainen e soci.
In breve: tanta classe, astuzia, mestiere, soluzioni compositive ormai abusate, però evidentemente efficaci, basate su agrodolci melodie di facile presa, ma(ahimè), poco spontanee ed una discreta dose di ripetitività.
Qui potrebbe anche terminare la mia recensione e sicuramente mi porterei a casa una quantità spropositata di insulti (più o meno meritati), anche perché, in questo modo, finirei per sminuire un lavoro che, certamente NON è brutto ma, a dire il vero, nemmeno da incorniciare.
May The Bridges We Burn Light The Way, uscito sempre per la fedele
Century Media Records, non può essere liquidato in poche righe, vista l’importanza storica della band di cui si parla che, in passato, ha regalato capitoli discografici di tutto rispetto, come
The Redshift,
Beyond o
Grey Heavens.
Anzitutto, nulla da eccepire sulla prova tecnico-esecutiva dei musicisti, che si dimostrano sempre all’altezza della loro fama; a partire proprio dalla chitarra, mai doma, di
Markus Vanhala, passando per le tastiere di
Aapo Koivisto, costantemente focalizzate sulla creazione delle atmosfere ideali, fino a giungere alla voce cavernosa di
Jukka Pelkonen e alla sezione ritmica, scandita con precisione certosina, dal basso di
Mikko Kivistö e dalla batteria di
Atte Pesonen.
Dal punto di vista del song-writing invece, come si diceva precedentemente, il disco non è assolutamente negativo anzi, sono presenti dei lampi di genio degni di nota, in corrispondenza delle tracce più riuscite, rappresentate da
The Last Hero, caratterizzata da un buon refrain, dall’intensa
The Darkest City, o dalla conturbante
Streets Of Rage.
Tuttavia, sembra sempre mancare qualcosa e si avverte l’inquietante sensazione che gli
Omnium Gatherum vadano ormai avanti per inerzia, con il pilota automatico inserito, affidandosi esclusivamente ai loro trucchetti melodici, sicuramente efficaci, ma ripetuti quasi ossessivamente, nel tentativo forse, di nascondere uno scarso coinvolgimento, sotto il profilo emozionale.
Gli spunti interessanti non mancano neppure in altri episodi, come in
Walking Ghost Phase o in
Ignite The Flames eppure, la scintilla non scocca mai definitivamente e il tasto dolente è sempre lo stesso; scavando nel profondo e andando oltre l’astuzia compositiva che attecchisce con immediatezza al padiglione auricolare dell’ascoltatore, il disco, seppur piacevole, manca di intensità emotiva e di sostanza che, inevitabilmente, viene oscurata dall’abbondante musicalità, attorno a cui, ruota l’intero lavoro.
Per carità, ci si potrebbe anche accontentare; in fin dei conti, l’album è gradevole, ma questo basterà per vincere l’impietosa prova del tempo e poter affermare che
May The Bridges… (e sin d’ora già non ricordo il resto del titolo, non un è certamente segnale confortante, in quest'ottica) ha veramente lasciato il segno?
Ai posteri l’ardua sentenza…