Per chi scrive, la band del biondocrinito Gary Hughes non ha sbagliato un disco almeno fino al 2000, inanellando una serie di capolavori come l’omonimo esordio (il migliore del lotto), “The robe” o “Spellbound”: un songwriting strepitoso quello di Hughes, capace di offrirci brani di valore assoluto con una frequenza assolutamente invidiabile (otto album in poco meno di cinque anni, se contiamo anche quelli scritti per l’amico Bob Catley), che si è però inceppato leggermente negli ultimi tempi… prima la rock opera su re Artù “Once and future king”, il cui valore effettivo non ha corrispose esattamente alle aspettative, poi due dischi scialbi e privi di mordente come “Far beyond the world” e “Return to evermore”, quest’ultimo senza il contributo del talentuoso Vinnie Burns alla sei corde.
Nell’attesa di una nuova release che faccia luce definitiva sullo status di una delle più importanti hard rock bands dell’ultimo decennio, la Frontiers ha pensato bene di pubblicare questa doppia raccolta, contenente il meglio di un repertorio da favola, accuratamente suddiviso in “Rockers” (il primo dischetto) e “Ballads” (il secondo).
Il principale motivo d’interesse per questo lavoro risiede nel fatto che tutti i brani sono stati completamente riregistrati dalla nuova line up, che è purtroppo priva di Vinnie Burns, ma che risulta lo stesso in grado di spaccare il culo alla metà delle formazioni presenti oggi sul mercato (Bon Jovi compresi!). Il rovescio della medaglia sta però nel fatto che le nuove versioni non suonano come dovrebbero, con la batteria in particolare che ha un suono troppo staccato dal resto degli strumenti, ed una sezione ritmica non sempre dinamica e graffiante. E’ vero che alcuni brani sono stati leggermente modificati, come la celtica “Red” o “Ten fathoms deep”, e che in generale tutti gli assoli sono stati rifatti, ma le versioni originali possedevano una classe che qui si fatica davvero a ritrovare…
Non fraintendetemi però: la selezione dei pezzi è spettacolare (a parte quelli estratti dagli ultimi lavori e un paio di assenze pesantissime come “Wait for you” e “The torch”), e il tutto suona comunque bene, soprattutto se confrontato a ciò che esce ultimamente nel panorama musicale… dico solo che i vecchi Ten erano un’altra cosa, e che spero vivamente col prossimo disco possano tornare a quei livelli. Nel frattempo, chi non conoscesse nulla della band farebbe bene prima a recuperare il doppio live “Never say goodbye”, e solo in un secondo momento a dare un’occhiata a questa raccolta. Non me ne voglia la Frontiers, l’operazione è sicuramente interessante, è la sua realizzazione che lascia un po’ l’amaro in bocca… nel frattempo cercate di convincere il buon Gary a ripassare dalle nostre parti, dato che manca da ormai cinque anni buoni!
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