Copertina 6,5

Info

Genere:Heavy Metal
Anno di uscita:2018
Durata:52 min.
Etichetta:Napalm
Distribuzione:Audioglobe

Tracklist

  1. THE MISSION
  2. PHANTOM DIVINE (SHADOW EMPIRE)
  3. RAVENLIGHT
  4. AMNESIAC
  5. BURNS TO EMBRACE
  6. IN TWILIGHT HOURS
  7. KEVLAR SKIN
  8. STATIC
  9. MINDFALL REMEDY
  10. STORIES UNHEARD
  11. VESPERTINE (MY CRIMSON BRIDE)
  12. THE PROUD AND THE BROKEN
  13. MINISTRIUM (SHADOW KEY)

Line up

  • Sean Tibbetts: bass
  • Thomas Youngblood: guitars
  • Oliver Palotai: keyboards
  • Tommy Karevik: vocals
  • Johan Nunez: drums

Voto medio utenti

Dodicesimo album per gli statunitensi Kamelot, il secondo di fila su Napalm Records dopo il mezzo passo falso di "Haven", pubblicato nel 2015, che sebbene fosse un disco piuttosto piatto e privo di spunti andava a migliorare il disastro commesso in occasione di "Silverthorn" del 2012, ultimo disco inciso per la tedesca SPV e primo con Tommy Karevik alla voce dopo l'abbandono di Roy Khan, oggi molto rimpianto dai fan della band e dalla critica.

In effetti Khan era un gran bel cantante (sebbene negli ultimi anni sul lato live lasciasse decisamente a desiderare) e la sua eredità è stata da sempre un fardello molto, troppo pesante da portare persino per un asso della portata di Karevik, suo malgrado da sempre "costretto" (da Youngblood?) a cantare su registri non suoi ed a scimmiottare in maniera triste il desaparecido norvegese.

"The Shadow Theory" non è un buonissimo disco, questo a scanso di equivoci, ma è migliore sia del fin troppo innocuo e zuccheroso "Haven" sia di quella pacchianata sinfonica di "Silverthorn", sebbene in quest'ultimo caso non è che ci volesse molto. Continua ad avere molti difetti, si è persa la magia degli anni d'oro passati su Noise Records, Youngblood non ha ancora esaurito la fase di autocompiacimento e di giocare con l'elettronica, infarcendo l'album di suoni, effetti e passaggi assolutamente inutili, fuorvianti e fuori luogo, anche se in maniera meno massiccia ed invadente rispetto al passato; d'altro canto le composizioni sarebbero più riuscite, più snelle, più trascinanti, con buone linee vocali ed un Karevik in ogni caso sempre apprezzabile.

Vi dirò di più, in alcuni sprazzi qua e la' si riesce a sentire in maniera chiara ed inequivocabile la qualità e il flavour di album immortali quali "The Fourth Legacy" od "Epica", come in "Ravenlight" o "Burns To Embrace", almeno prima che intervenga un odioso ed inutile coro di bambini che sinceramente lascia interdetti sul chi abbia pensato e permesso una simile sconceria.
Scelta assai strana, peraltro, quella di mettere i brani più convincenti uno dietro l'altro nella seconda parte del disco: "Vespertine" e "The Proud and The Broken" in particolar modo avrebbero dovuto trovare una più idonea collocazione in apertura.

Detto questo, ho usato il condizionale:
d'altro canto le composizioni sarebbero più riuscite ha scritto precedentemente:

perchè ahimè "The Shadow Theory" presenta una produzione non degna di questo nome che rovina davvero in maniera significativa dei brani che non fanno gridare al miracolo ma che senza dubbio valgono assai di più tutto quello che la band statunitense sia stata in grado di comporre negli ultimi lavori. I suoni, seguendo la moda degli ultimi anni, sono ipercompressi in maniera fastidiosa, per produrre quell'effetto "botta" che adesso piace tanto e che deve essere avvertibile anche da smartphone e casse bluetooth ma che non può essere minimamente tollerato da un amante della musica che si rispetti, senza scendere nel campo degli audiofili, ve lo assicuro. Anche il sound della batteria, suonata per l'occasione dal belga dei Firewind Johan Nunez che ha sostituito lo storico Casey Grillo, è fin troppo sparato in primo piano e presente, insomma con molta probabilità una buona registrazione è stata alterata e distorta in fase di mixing e post produzione per star dietro ai canoni moderni, rendendo il tutto assai plasticoso e bombastico senza curarsi troppo di chi poi questi cd li ascolta ancora su impianti stereo degni di questo nome: davvero un gran peccato.

Rimane la consolazione di poter ascoltare dei Kamelot nuovamente in grado di emozionare ("In Twilight Hours" con la partecipazione della giovane Jennifer Haben dei Beyond the Black è molto intensa), a volte per l'intera durata dei brani, a volte a sprazzi ma in ogni caso "The Shadow Theory" dopo parecchi ascolti si rivela essere un lavoro più che sufficiente, purtroppo ancora azzoppato da scelte discutibili in sede di songwriting (suonini elettronici da bacchettate sulle dita, un brano come "Mindfall Remedy" completamente ammazzato da scream e contaminazioni varie) e dietro la console, ma che offre della qualità inaspettata e diversi spunti di rinascita: direi che dopo più di 10 anni di obbrobri era l'ora. A metà, ma bentornati.



Recensione a cura di Gianluca 'Graz' Grazioli

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Ultimi commenti dei lettori

Inserito il 21 apr 2018 alle 12:05

...abbastanza d'accordo con il buon Graz. Album ancora una volta troppo autoreferenziale. il cordone ombelicale con l'era Khan non si è ancora seccato e staccato...le canzoni sono senza alcun dubbio buone, ma tutto suona un po' scontato, mancano ritornelli veramente trascinanti. per assurdo il pezzo che mi è piaciuto di più è quello che più si stacca dai loro standard: "Amnesiac". Ripeto, Khan non si cancella, ma non tentare una sterzata verso altri canoni con un cantante come Tommy è uno scandalo...sentito il nuovo singolo dei Seventh Wonder? ps. la molto bella (anche se la formula ha rotto un po') "In Twilight Hours"! senza uno straccio di notizie ero straconvinto fosse fatta con Sharon den Adel...praticamente un duetto tra cloni °__°

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