Nati alla metà degli anni novanta sulle ceneri di una
band (Wildfire) specializzata in
cover dei Marillion del periodo
Fish-iano, i veronesi
Marygold arrivano alla pubblicazione del loro secondo
full-length forti di un’esperienza e di una maturità espressiva che li colloca ai vertici di quella schiera di gruppi fedeli ai modelli imprescindibili del
prog e del
neoprog inglese (Genesis, Camel, Yes, ELP, Pendragon, IQ, Jadis e gli stessi Marillion) eppure anche capaci di ostentare una personalità tutta italiana, filtrando il nobile bagaglio ispirativo attraverso quella spiccata sensibilità (un nome su tutti … PFM) che ci ha reso fieri, valorosi e apprezzati “transcodificatori” del genere.
“
One light year” è un lavoro molto “classico”, raffinato e romantico, privo di fastidiose nostalgie, di pretese eccessivamente intellettuali e tecnicismi esasperati, che si ascolta “tutto di un fiato” sorprendendosi innanzi tutto per la qualità e la fluidità di composizioni policrome e coinvolgenti e per la voce di
Guido Cavalleri, che con la sua grana scura aggiunge alla musica dei veneti una piacevole specificità.
Il resto lo fanno una sezione ritmica di valore, tastiere rigogliose e non invasive e una chitarra (parecchio
Rothery docet) sempre puntuale e incisiva, così come non voglio escludere dalla menzione nemmeno la laringe “ospite” di
Irene Tamassia, artefice di sporadici interventi assai suggestivi.
In un programma complessivamente piuttosto appassionante, troverete l’approccio quasi “radiofonico” di “
Ants in the sand” (personalmente avrei forse evitato il finale di matrice
rock n’ roll …), un felice influsso Marillion-
esco in “
15 Years”, la teatrale e sinfonica
suite “
Spherax H2O” e la palpabile tensione emotiva garantita da “
Travel notes on Bretagne”, davvero evocativa nel suo malinconico e leggiadro svolgimento.
Si continua con la vaporosa epicità dello strumentale “
Without stalagmite” e con una delizia pulsante e iridescente di nome “
Pain”, mentre il viaggio sonoro termina con “
Lord of time”, in cui il tocco di
hard settantiano svela un’altra sfaccettatura del ricco temperamento artistico dei nostri.
Per la sua aderenza a una certa tradizione, è facile prevedere che qualcuno potrà parlare di “anacronismi”, altri di un disco “senza tempo”, ma alla fine direi che c’è solo un modo per definire “
One light year”e cioè un gran bel lavoro di puro
progressive rock, da consumare dal primo all’ultimo minuto.
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