Inutile nasconderlo … dopo l’esordio da “infarto” e la lievissima
contrazione del lavoro successivo, attendevo “al varco” questa nuova
release dei
Work of Art, ansioso di verificare dove si sarebbe collocato il terzo punto del loro
elettrocardiogramma discografico.
La recente elettrizzante prestazione degli State Of Salazar, concorrenti realmente autorevoli (per di più “interni” … stessa label e nazionalità ...) per il trono di categoria, non faceva che rendere ancora più stuzzicante l’intera questione, e oggi che l’attesa è finalmente finita,
beh, possiamo tranquillamente affermare che “Framework” ristabilisce le gerarchie pur senza ridimensionare in alcun modo le formidabili qualità di “All the way”.
Una plausibile dimostrazione di quanto sia salutare un po’ di sano “spirito di competizione”, forse, mentre ad apparire assodata è la dimensione artistica di una
band di livello superiore, che con quest’albo conferma di poter operare sullo stesso piano emotivo dei “Grandi”, grazie a quella classe innata di cui pochi possono ritenersi depositari.
Insomma, anche se l’
AOR è un genere che non intende rivoluzionare il
rock e pure qui potremmo parlare di modelli fondamentali come Toto, Journey, Michael Thompson Band, Chicago, Survivor e Giant, un conto è sfruttarne acriticamente le gesta e un altro è possedere la cultura e la sensibilità adeguate a rileggerle in maniera straordinariamente ispirata e proficua.
I Work of Art possiedono uno stupefacente gusto melodico capace di salvaguardare sia mordente e sia eleganza, hanno dotazioni tecniche importanti e uno stile perfettamente “classico”, marchiato altresì da un
feeling effervescente capace di rendere il quadro generale di assoluta attualità.
Anzi, probabilmente si potrebbe addirittura asserire che sono al momento qualcosa di molto prossimo al vero archetipo del “gruppo adulto moderno”, raffinato, simultaneamente rigoroso e creativo, autore di una musica che si rivela una promulgatrice instancabile di melodie superbe, sontuosi arrangiamenti ed emozioni inestimabili.
Sequenze
hard, armonie forbite e dinamiche, un congegno dei cori sempre puntuale e avvincente, il tutto integrato da piccole inflessioni
jazzate e da taluni barlumi sonori che, seppure mediati da un’egemone vena “radiofonica” e levigata, potrebbero finire per affascinare perfino i
fans del
prog … in tanta opulenza è quasi impossibile scegliere le gemme più preziose e tuttavia si può davvero inebriarsi di soddisfazione ascoltando l’esplosiva ruffianeria di “Time to let go”, la purezza iridescente di “Shout 'till you wake up”, la
verve contagiosa di “How do you sleep at night?”, la “fisicità” di “The machine” o ancora la spigliatezza passionale di “Natalie”, l’impeto lirico di “The turning point” e la drammaticità notturna di “My waking dream”.
Ebbene, cari
chic-rockers alla lettura, questo non è per nulla un “sogno ad occhi aperti” … è una splendida “realtà” che sta percorrendo la scalinata per le “stelle” con impressionante disinvoltura e che con “Framework” compie un altro balzo importante verso la meta.