Nell’ormai famigerato panorama “post-qualsiasi-altro-genere-vi-venga-in-mente”, visto il proliferare selvaggio delle produzioni in quest’ambito, può essere ugualmente facile imbattersi in album generati da idee mediocri se non povere, come in esercizi di stile o addirittura in piccoli capolavori.
Quest’ultimo lavoro dei
Kowloon Walled City si posiziona decisamente nella seconda casistica, proponendo una serie di canzoni sicuramente omogenea, solida e ben scritta, ma che tuttavia, dopo alcuni ascolti, rischia di non mostrare quel colpo di genio che ci si aspetterebbe sempre da un gruppo che sceglie di fare della sperimentazione, della ricercatezza e dell’innovazione sonora il proprio cavallo di battaglia.
La tracklist si compone di pezzi assolutamente ben suonati e che propongono un sound che miscela istinti di derivazione hardcore e sludgecore con strutture più aperte e dilatate che delineano una certa propensione alla ricerca di soluzioni più vicine al sound di gruppi quali
Cult of Luna,
Neurosis e, alla lontana, di alcuni tra i pezzi più lenti dei
Converge del periodo di
You Fail Me.
Fin qui sembrerebbe un idillio, il vero problema è che, nonostante ci siano le idee e le capacità (tutto funziona alla perfezione, buona produzione inclusa), l’album risulta un po’ piatto, incapace di dare quella sferzata di vigore che ci si aspetterebbe. Le canzoni si susseguono e ripetono spesso e volentieri le stesse sonorità e schemi ritmici assai simili, rischiando così di derubricare l’interesse verso l’opera da un ascolto attento e critico a un mero, piacevole sottofondo.
Un lavoro coerente, ben suonato, forse addirittura troppo omogeneo e compatto. Le uniche vere virate dal canone le offrono l’opener “The Pressure Keeps Me Alive”, con una discreta variazione dinamica dall’inizio, alla dichiarazione del tema portante fino allo sviluppo più concreto e granitico della struttura-canzone, la title track “Container Ships”, con suggestioni noise e quasi drone sfocianti in un riffing fatto di pieni e vuoti che si snoda accompagnato da un incedere lento per concludere con una sezione più trascinante in cui la canzone esplode. Altro momento di apertura melodica e variazione dal tracciato spiccatamente post-core è offerto da “Cornerstone”, in cui si riescono a sentire quasi suggestioni degli
Alice in Chains di
Dirt, seppur opportunamente riveduti, distrutti e rielaborati in chiave attuale.
Un ottimo ascolto per gli appassionati del filone, un disco che può tenere elevata l’attenzione nei primi tempi ma che rischia di suonare un po’ ripetitivo e stanco a lungo andare.
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