Copertina 7,5

Info

Anno di uscita:2011
Durata:62 min.
Etichetta:Witch-King Records

Tracklist

  1. ROGUE
  2. NAMELESS FEAR
  3. PATH MARKED UNKNOWN
  4. LADY HERESY
  5. ASPIRE FOR THE DARKEST HOUR
  6. THE DEATH OF A ROSE (PART I)
  7. THE DEATH OF A ROSE (PART II)
  8. FAREWELL

Line up

  • Sam Austen: Bass, Clean Vocals
  • James Last: Drums
  • Will Hall: Lead Guitar
  • Greg Chivers: Vocals, Guitars, EBow

Voto medio utenti

“Un inedito degli Opeth? Me l’ero perso?”
Questo è stato uno dei primi pensieri che il mio labile cervellino ha formulato iniziando ad ascoltare questo “The Death of a Rose”, secondo disco degli inglesi Fornost Arnor.

Fornost Arnor è un moniker che deriva da una città della Terra di Mezzo descritta da Tolkien, ma questo dettaglio non deve assolutamente ingannarci sul tipo di musica che gli inglesi sono usi comporre. Niente folk, niente epic ma un prog metal dalle tinte oscure, che a volte sfocia nel death grazie soprattutto alle sapienti alternanze vocali tra il growl e il cantato pulito e alle sfuriate di chitarra e batteria che si dipanano per l’ora intera che va a comporre questo disco.
Opeth insomma, di quegli Opeth però che avevamo lasciato prima della svolta intrapresa con “Heritage”, quegli Opeth che tanti rimpiangono e che potrebbero parzialmente ritrovare in questo disco, così pregno dell’influenza della band di Akerfeldt, pur non raggiungendone la capacità di catturare l’ascoltatore, in particolare per “colpa” delle due voci, non sempre all’altezza della situazione e sicuramente inferiori alla splendida ugola di Mikael.
Il disco inizia in maniera soft con “Rogue”, che alla lunga rimarrà la canzone migliore del disco: intro acustica tra chitarra e pianoforte, elegante balletto tra voce femminile e voce maschile, danza che poi sfocia in un perfetto mix di rabbia e melodia, a volte forse esasperando eccessivamente il distacco tra i due mondi ma offrendo un caleidoscopio di emozioni e di abilità fuori dal comune, sia dal punto di vista compositivo sia dal punto di vista tecnico, dove merita una particolare menzione il chitarrista Will Hall, a tratti davvero fenomenale nei suoi tecnicissimi assoli.
Si prosegue poi in un saliscendi di plumbee emozioni, passando da momenti più tranquilli e melodici, come nella splendida “Aspire for the Darkest Hour”, a canzoni in cui la rabbia fuoriesce in tutto il suo ardore, mostrando il lato più death della band, come ad esempio in “Nameless Fear” o in “Path Marked Unknown”, sotto certi aspetti quasi affine al black.

Insomma decisamente un buon disco quello dei Fornost Arnor, forse con gli unici difetti di essere leggermente prolisso e derivativo, ma che durante l’ascolto dimostra di saper camminare con le proprie gambe, senza bisogno di appoggiarsi troppo alle sue fonti d’ispirazione. Delusi dal nuovo corso degli Opeth? Date una chance ai Fornost Arnor, prometto che non sarà un totale salto nel vuoto.

Quoth the Raven, Nevermore..
Recensione a cura di Andrea Gandy Perlini

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