Copertina 7,5

Info

Anno di uscita:2011
Durata:53 min.
Etichetta:Bigger Picture

Tracklist

  1. I AM MADE OF YOU
  2. CAFFEINE
  3. THE NIGHTMARE RETURNS
  4. A RUNAWAY TRAIN
  5. LAST MAN ON EARTH
  6. THE CONGREGATION
  7. I’LL BITE YOUR FACE OFF
  8. DISCO BLOODBATH BOOGIE FEVER
  9. GHOULS GONE WILD
  10. SOMETHING TO REMEMBER ME BY
  11. WHEN HELL COMES HOME
  12. WHAT BABY WANTS
  13. I GOTTA GET OUTTA HERE
  14. THE UNDERTURE

Line up

  • Alice Cooper: vocals
  • many special guest

Voto medio utenti

Devo ammettere che ho avuto un po’ di difficoltà ad inquadrare il nuovo album di Alice Cooper. Beh, d’altra parte non stiamo parlando di un disco qualsiasi, bensì del sequel di quel capolavoro di “Welcome to my nightmare”, uscito nel lontano 1975, che non solo segnò il passaggio da vera e propria band a progetto solista per gli Alice Cooper, ma segnò anche indelebilmente la musica rock, visto che stiamo parlando di uno dei capisaldi non solo di Mr. Vincent Damon Furnier stesso, ma, appunto, di tutto il rock in generale. Con queste premesse, e con la certezza quasi matematica che generalmente i sequel, in qualsiasi ambito, non riescono mai ad eguagliare o superare il primo capitolo, a meno che non siano stati già ideati a monte come trilogia, capirete che le aspettative rispetto a “Welcome 2 my nightmare” erano abbastanza alte. Perché se è vero che fin dal titolo e dalla copertina è evidente l’ironia con cui Alice ha affrontato quest’operazione, resta il fatto che comunque è andato a scomodare un fantasma bello ingombrante. Beh, io partirei subito in quarta dicendo che le aspettative sono state appagate, anche se solo in parte. Questo sequel non è riuscito a raggiungere le vette del suo predecessore, ma questo penso fosse prevedibile. Però, ci tengo a dirlo, non è affatto un brutto disco, anzi, quindi pur non potendo parlare di capolavoro, il livello resta in ogni caso molto alto, e se al posto di quell’ingombrante titolo ne portasse un altro sono sicuro che guadagnerebbe automaticamente qualche punto in più. Per essere sicuro, però, di fare le cose per bene, il buon Vincent si è circondato di un vero e proprio esercito, a partire dal mitico produttore/compositore Bob Ezrin, famoso oltre che per essere stato già presente sul primo capitolo e su altri dischi degli Alice Cooper, anche per le sue collaborazioni con Lou Reed, Pink Floyd e Kiss, per continuare con Michael Bruce, Dennis Dunaway e Neil Smith, gli Alice Cooper originali, coadiuvati, in questo caso, niente meno che da Steve Hunter alla chitarra. Ma non finisce qui… Se si può tralasciare la collaborazione con Ke$ha, che sa tanto di mossa commerciale più che artistica, gli altri ospiti sono di tutto rispetto, da Desmond Child a Rob Zombie a John 5. Come dire, tutti pezzi da novanta… In ogni caso, vista la complessità dell’album, molto eterogeneo ed eclettico, e vista l’importanza del personaggio, direi che è il caso di approfondire meglio i vari aspetti del disco.

Come per il primo capitolo, anche in questo caso stiamo parlando di un concept album, visto che ancora una volta vengono narrate le disavventure di Steven, e in particolare dei suoi incubi. Non siamo più di fronte ad un adolescente alle prese con le sue paure da ragazzino, ma siamo di fronte ad un adulto che combatte le sue paure verso aspetti reali della vita, e durante lo svolgimento del concept possiamo osservare come cerchi di porvi rimedio attraverso la “Caffeine”, per restare sveglio ed evitare così gli incubi, così come possiamo vedere quanto tutto questo sia inutile, visto che ad un certo punto cede al sonno e si ritrova di nuovo nei suoi incubi (“The nightmare returns”), per poi ritrovarsi in un cimitero dove capisce di essere ormai “The last man on Earth”, fino alla conclusione, in cui riesce ad uscire dal suo incubo (“I gotta get out here”). Questa mooolto in sintesi la storia che troverete all’interno di “Welcome 2 my nightmare”.
Va da sé che per orchestrare il tutto al meglio, non si poteva mantenere un registro troppo rigido, quindi ogni song sembra quasi un capitolo a sé stante, e le influenze, nonché gli stili, che troverete nel disco, spaziano da brani alla Tom Waits, a brani alla Rolling Stones, senza tralasciare richiami rock 'n' roll, sixties & seventies, southern rock, dance, e di elettronica… Insomma, un bel calderone, che a primo acchito potrebbe spiazzarvi un po’, ma solo fino a quando non riuscirete ad immedesimarvi al meglio nell’atmosfera del disco e soprattutto ad immergervi completamente nella storia. E per darvi una mano non posso far altro che affrontare un bel track by track, altrimenti l’analisi del disco risulterebbe troppo dispersiva e poco chiara…


Si parte in maniera alquanto anomala e, perché no, anche poco incisiva, con “I am made of you”, song aperta da un piano soave e da un Alice quasi onirico. Non vi nascondo che mi ha lasciato davvero spiazzato ed amareggiato quando ho ascoltato l’album la prima volta, visto che non mi è sembrato per nulla un buon inizio, e anche ora che l’ho riascoltato diverse volte resto del mio avviso.

Fortunatamente con la successiva “Caffeine” le cose migliorano decisamente, visto che ora siamo alle prese con un rock semplice, forse banale, ma frizzante, nella migliore tradizione di Alice. Il ritornello è vincente, e ti si piazza in testa fin dal primo ascolto, e tutto sommato dai brani di Cooper vogliamo anche questo, no?

A questo punto è giunto il momento per il nostro Steven di cedere al sonno e ripiombare nei suoi incubi peggiori, ed ecco quindi arrivare “The nightmare returns”, una sorta di intro affidata al pianoforte e alla voce sognante di Alice, che serve da preambolo a “A runaway train”, una sorta di rock ‘n’ roll che vede dietro gli strumenti gli Alice Cooper originali, per un brano frizzante che scorre via benissimo, e rende alla perfezione l’idea di un treno fuori controllo che all’impazzata porta il nostro Steven verso il cimitero di cui parlavamo prima.

Si cambia ancora registro con la successiva “Last man on Earth”, forse il brano migliore dell’album, con echi di Tom Waits, che se a un primo ascolto possono lasciare spiazzati, alla fine risultano vincenti e danno esattamente l’idea della pazzia che si sta impadronendo del nostro protagonista, che ora si trova sottoposto ad una “Congregation” che lo accoglie all’Inferno, di cui fa parte anche Rob Zombie, qui alle prese con le backing vocals. Il brano è abbastanza innocuo, dalla collaborazione con Zombie mi sarei aspettato qualcosa di più malato, però ha dalla sua l’ennesimo refrain vincente che risolleva le sorti di una canzone altrimenti abbastanza anonima.

A questo punto arriva il primo singolo, che molti di voi avranno già ascoltato dando un’occhiata al video pubblicato qualche giorno fa, e che potete guardare di nuovo in calce a questa recensione. Sto parlando naturalmente di “I’ll bite your face off”, che ha fatto gridare qualcuno al plagio, ma che, molto più verosimilmente, è semplicemente un tributo del nostro Alice ai suoi miti di gioventù, quei Rolling Stones che tanno hanno influenzato il rock venuto dopo di loro. Le sonorità, infatti, sono assolutamente alla Jagger/Richards, e rendono bene l’idea di Steven che perde la testa per una “diavolessa”, visto il piglio frivolo che ha il brano.

Ecco ora arrivare il pezzo più anomalo dell’album, “Disco bloodbath boogie fever”, una canzone dance! Sì, avete letto bene, dance… Ma, prima di gridare allo scandalo, ascoltatela, e capirete fin dalle prime strofe quanto ironico sia il buon Alice, che con il suo cantato mezzo rap prende in giro in maniera abbastanza esplicita quel mondo, prima che uno straripante assolo di John 5 riporti le sonorità su territori decisamente più hard.

Abbastanza confusi fin’ora? Beh, non è ancora finita… Giunti alla metà del disco ci imbattiamo in “Ghouls gonna wild”, un altro rock ‘n’ roll, che però risulta leggermente meno incisivo del precedente “A runaway train”, di ben altro spessore. Chi conosce bene la discografia di Alice Cooper sa che in un suo album non può mancare la ballatona di turno, ed ecco quindi arrivare “Something to remember me by” a mettere tranquilli i più sognatori di voi. Tutto sommato nulla di eclatante, anche se ben orchestrata ed arrangiata, con il suo refrain vagamente beatlesiano…

Si torna a sonorità più oscure, oserei dire quasi doom, visto il riff, con “When Hell comes down”, brano dal sapore fortemente seventies, che vede, manco a farlo apposta, ancora una volta gli originali Alice Cooper accompagnare il malefico singer, qui alle prese con un’interpretazione spettacolare, per un brano che si pone prepotentemente tra gli highlights dell’album. Dopo un brano del genere, la successiva e scialba “What baby wants” non fa propriamente una bellissima figura, e men che meno il duetto con Ke$ha. Sono certo che questo sarà il prossimo singolo del disco, visto il suo piglio scanzonato e commerciale, ma tutto sommato potevano anche evitarsela.

Ci avviciniamo alla fine con la già citata “I gotta get outta here”, ed ecco spuntare le sonorità southern rock di cui parlavo in apertura, una canzone dal piglio leggero, brano abbastanza trascurabile, soprattutto visto che fa da preambolo al vero capolavoro del disco, lo strumentale “The underture”, che in quattro minuti e mezzo mette insieme i migliori riff e le migliori melodie dei due capitoli, in un medley spettacolare…

Wow, che faticata... quattordici brani per una durata complessiva di 53’, per un disco che sicuramente non è di facile assimilazione, ma che ha bisogno di più ascolti per farsi comprendere appieno. Cosa aggiungere? Sicuramente il capitolo due non è un capolavoro, ma lasciatemi fare una considerazione: ce ne fossero di più di dischi così ai giorni nostri, dischi così ricchi di arrangiamenti come si usava una volta, dischi suonati col cuore e non con i PC, dischi che lasciano il segno grazie alla capacità di chi li compone di trovare melodie vincenti, e di chi li suona di far sentire il proprio personale timbro. Promosso? Direi sicuramente di sì. Dare un seguito a “Welcome to my nightmare” non era certo un’impresa facile, ed Alice c’è riuscito. E fanculo a chi va dicendo in giro che l’abbia fatto solo per soldi. Dubito che gliene servano altri a questo punto della sua carriera, tanto da spingerlo a fare una cosa del genere, se non pienamente convinto di cosa sta partorendo…
Probabilmente tra 35 anni non parleranno di questo capitolo come ancora oggi, dopo gli stessi anni, si parla del primo, ma per adesso va bene così, visto che il disco si fa ascoltare, risulta fresco, e nonostante un paio di brani meno convincenti, ma su quattordici totali ci può stare, ne presenta, di contro, almeno 6 o 7 veramente validissimi, ottima colonna sonora degli incubi del nostro povero Steven.

Recensione a cura di Roberto Alfieri

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Ultimi commenti dei lettori

Inserito il 26 set 2011 alle 09:20

L'Alice Cooper che piace a me è quello di fine anni 80 e anni 90 (la mia epoca da invasamento metal) e devo dire che ascoltando questo album ci sono rimasto un po' male. Se non fosse stata per la recensione non sarei neppure arrivato in fondo al disco. Incuriosito sono andato a scaricare l'originale tanto acclamato, ma nn mi è piaciuto neppure quello. Li riascolterò entrambi, ma a pelle non è il mio genere. Detto questo, lo andrò a vedere al Live di Trezzo tra qualche settimana.

Inserito il 25 set 2011 alle 15:20

A me piace, e neanche poco... non reggerà il confronto con il suo illustre predecessore, ma a mio avviso spacca di brutto, soprattutto in pezzi come i am made of you, the last man on earth, ghouls gone wild e la stupenda underture, un capolavoro assoluto....grazie alice, mi hai risollevato non poco questo 2011!!!!

Inserito il 24 set 2011 alle 17:12

Sono esausto....

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