(27 giugno 2009) Gods Of Metal 2009 sabato 27 giugno

Info

Provincia:MB
Costo:non disponibile
Il carrozzone del Gods Of Metal torna allo Stadio Brianteo di Monza e, almeno per me che non ho amato molto la location bolognese (mentre l’Idroscalo meneghino si era rivelata una scelta eccellente), questa non può che essere accolta come la prima buona notizia.
Un’ottima organizzazione generale dell’evento conferma che anche l’Italia ha raggiunto uno standard qualitativo e professionale di livello internazionale, abbandonando i “provincialismi” che avevano caratterizzato alcune delle edizioni passate del festival (compreso l’antesignano Monsters Of Rock) più amato dal popolo degli “hard n’ heavy addicted” nostrani.
Anche in questo caso non sono mancati problemini e qualche disagio (code chilometriche per il cibo e le bevande, non risolte nemmeno dall’espediente dei “gettoni”, servizi igienici giunti ben presto al limite “dell’impraticabilità”, talune carenze nella “segnaletica”, la posizione non proprio “felice” di alcuni stand, prezzi leggermente elevati – un impermeabile di plastica 5€, ad esempio!) che hanno prodotto qualche piccola lagnanza (e poi si sa, lamentarsi è da sempre un frequentato “sport nazionale”) nella nutrita platea, ma sono certo che tutti i presenti hanno enormemente apprezzato la soluzione del doppio Main Stage affiancato (su cui le band si sono esibite alternativamente), in grado di “tagliare” i tempi morti (forse addirittura troppo in certe occasioni, vedi i momenti dei pasti principali, in prossimità dei quali, forse, si poteva prevedere una piccola pausa supplementare!) e agevolare il pubblico alla fruizione completa dello spettacolo (evitandogli “grossi” spostamenti), e la precisione “svizzera” nella gestione globale di un bill così corposo, frutto di un coordinamento e di una preparazione dell’intera macchina organizzativa davvero meticolose.
Insomma, che altro dire … non resta che passare direttamente alla cronaca dettagliata di una gran bella giornata …
(Marco Aimasso)

Foto a cura di Sergio Rapetti

The Rocker
Le prime note dei The Rocker, formazione milanese cui tocca l'onore (ma anche l'onere) di aprire il Gods of Metal 2009, iniziano a scorrere proprio mentre il trio torinese di Eutk è ancora in coda per gli accrediti. Fortunatamente la cosa si risolve piuttosto velocemente ed arriviamo davanti al Cruefest Stage alla loro seconda canzone, che ci consegna un Hard Rock ruvido, che lascia facilmente trapelare l'influenza degli AC/DC, e, infatti, non stupisce scoprire che il loro cantante è Edo Arlenghi, frontman dei RIFF/RAFF, quotata tribute band degli AC/DC.
Il tempo a loro disposizione è limitato ma gli permette di continuare a divertire i presenti con la politically scorrect ed abrasiva (nei testi e nel sound) "The Italian Bastard".
(Sergio Rapetti)

Extrema
Il pubblico è già piuttosto consistente, nonostante l'orario. GL ringrazia dicendo che ciò dimostra la buona situazione del metal italiano. Gli Extrema non devono dimostrare niente a nessuno, sono in giro da 20 anni e dopo un periodo di crisi durato parecchio tempo sono tornati alla grande, merito anche della Scarlet Records, che ha dato loro modo di pubblicare quel “Set the world afire” che ha segnato alla grande il loro ritorno. Oggi sono qui per promuovere il loro ultimo “Pound for pound” e nei 25 minuti a loro disposizione mettono come sempre tutto a ferro e fuoco, in nome di quel “fottuto massacro collettivo” a cui ci hanno ormai da tempo abituato. La solita grande performance, energica e coinvolgente, con GL Perotti a trascinare tutti con la sua voce potentissima. Ci sono dei brani nuovi, ma l'entusiasmo dei presenti è ovviamente tutto per i classici come “Moneytalks” o “This toy”, sparate in faccia senza compromessi, fregandosene che non sia ancora mezzogiorno.
Grande show per un grande gruppo, peccato solo che vederli suonare prima di Lauren Harris faccia davvero male...
(Luca Franceschini)

Lauren Harris
"Piccole donne crescono". Forse.
Così nel 2009 Lauren Harris si presenza all’annuale appuntamento con il Gods of Metal senza l'ombra protettiva di papà. Tuttavia la situazione non cambia di molto. Le stesse canzoncine e le solite pose sul palco, giusto per mettere in risalto le proprie doti fisiche, in attesa che quelle artistiche riescono ad evolversi ed a farsi interessanti.
Per ora il tutto resta trascurabile.
(Sergio Rapetti)

Voivod
Lugubre sferragliare di catene. Improvviso, selvaggio, erompe l’urlo “Voivod!” e la fantastica band canadese occupa il palco, forse per una delle ultime esibizioni della propria carriera. Inutile ricapitolare i travagli di questa formazione, tanto brava quanto sfortunata. Notiamo soltanto che oltre alla funesta, irrimediabile assenza dello storico chitarrista Denis “Piggy” D’Amour, nel quartetto manca anche l’ex-Metallica Jason Newsted.
Ma i Voivod visti al Gods of Metal, non sono affatto in disarmo. Tanto che nel ruolo di bassista ricompare a grande sorpresa Jean-Yves “Blacky” Theriault, membro fondatore che torna con i vecchi compagni dopo quasi vent’anni. Meno notizie si hanno sul biondo musicista che ha l’improbo compito di sostituire il grande “Piggy”, presentato sinteticamente come “Dan”.
Alla fine la sua prova sarà più che onorevole, figurando anche esteticamente come un dignitoso emulo dell’inarrivabile originale.
Questo complesso di fattori, tecnici ed umani, giustificano pienamente una scaletta rivolta al passato del gruppo, con un unico brano del recente album “Infini” (“Global warning”). Quaranta minuti di pura emozione, specie per i fans della prima ora, trascinati da gemme come “Tribal convictions” e “The unknown knows”, nonchè da uno “Snake” che ha sfoggiato l’antico spirito tagliente e psichedelico, catalizzando l’attenzione del pubblico fino all’apoteosi finale. Una versione da brividi della Floydiana “Astronomy domine”, doverosamente dedicata all’amico prematuramente scomparso.
Non credo di essere di parte, dicendo che l’esibizione dei Voivod è stata, per qualità ed intensità emotiva, la migliore della giornata fino all’arrivo degli Heaven and Hell. Piuttosto si potrebbe discutere sulla sciagurata decisione di concedere meno di tre quarti d’ora, in pieno mezzogiorno, ad un nome storico del metal, riservando spazi ben migliori ad artisti che è perfino difficile far rientrare in tale genere musicale.
(Fabrizio Bertogliatti)

Backyard Babies
L'urlo "VOIVODDDDDDDDDD" di Fabrizio "Stonerman" non ha ancora finito di echeggiare all'interno dello Stadio Brianteo, quando gli svedesi Backyard Babies prendono possesso del L-Stage.
A colpi di Glam e Punk Rock la rodata formazione svedese, dove ritroviamo (l'ex Hellacopters) Dregen, si rende autrice di uno show energico ed apprezzato dal pubblico, questo nonostante l'orario della loro esibizione (le ore 13) ed il sole battente. Si parte con "Nomadic", dal loro ultimo ed autointitolato album, per finire con "Dysfunctional Professional" (da "People Like Us" del 2006), e nel mezzo si segnala brani come "Look At You", "Degenerated" o "Minus Celsius", comunque tutti quanti affrontati con la giusta sfrontatezza e con una tenuta del palco invidiabile, sopratutto da parte del carismatico, cantante e chitarrista, Nicke Borg.
La prima sorpresa, positiva, della giornata.
(Sergio Rapetti)

Epica
Poco meno di un anno fa, la loro performance al Rockin’ Field Festival, era stata rovinata da un improvviso nubifragio, ed oggi il meteo li grazia (la sfiga toccherà, infatti, ai Tesla), permettendo agli Epica di riscattare quello sfortunato precedente.
Rimango dell'idea che la proposta della formazione olandese non sia tra le più adatte ad un festival all'aperto, e che sia in grado di ottenere (e di dare...) il massimo in condizioni più "intime". Ad ogni modo Simone Simons si sembra essere decisamente in forma, ed essersi ormai lasciata alle spalle i problemi di salute che l'avevano frenata (per un certo periodo era stata sostituita, dl vivo, da Amanda Sommerville), tuttavia la loro esibizione non convince del tutto, un po' di routine ed un po' frenata dal suonare di primo pomeriggio.
Comunque con canzoni come "Cry For The Moon", "Fools of Damnation" o la conclusiva "Consign To Oblivion" confermano di essere trai maggiori e più validi esponenti del genere, e sono sicuro che ad ottobre, quando torneranno in Italia con il loro tour, cancelleranno i pochi dubbi rimasti dopo la loro performance odierna.
(Sergio Rapetti)

Marty Friedman
L'ex chitarrista di Cacophony e Megadeth è leggermente fuori luogo in un bill come quello di oggi, dedicato a band con una proposta nettamente più accessibile. Non aiuta neppure il fatto che sul palco di sinistra si esibiranno subito dopo gli Edguy, così che parecchia gente è già assiepata lì sotto. E l'esibizione di Marty e della sua band è, diciamolo pure, piuttosto noiosa. Per me che non sono un chitarrista, sorbirsi 45 minuti di musica strumentale, seppure piuttosto orecchiabile e lineare nella struttura, è comunque un'impresa abbastanza ardua.
Il chitarrista e la sua band sono comunque in palla e suonano alla grande, e col passare del tempo riscuotono consensi sempre maggiori, tanto che alla fine l'entusiasmo di chi ha scelto di seguire sarà davvero alto (merito forse anche di una “Tornado of souls” buttata lì con noncuranza, ma ovviamente riconosciuta e osannata da tutti). Nel complesso si è trattato di un buon concerto, anche se per chi non conosceva già la sua musica non è stata certo un'impresa facile.
(Luca Franceschini)

Edguy
Li ho visti dal vivo spesso e volentieri, ed anche in questa occasione gli Edguy si confermano formazione ben al di sopra alla media, per carisma (Sammet è un vero trascinatore, ma il resto del gruppo gli va a ruota) e per qualità delle canzoni che hanno in repertorio.
Ovviamente in questo contesto gli Edguy si ritrovano un po' limitati, non solo nel tempo, ma anche da un'audience si ricettiva ma forse dispersiva, comunque convincono. Ancora.
La scaletta non si distacca molto da quella del concerto tenuto da headliner lo scorso gennaio a Milano, ed ogni tanto lo stesso Sammet si dimentica di star cantando in pieno giorno, continuando ad esclamare "...tonight...". Ma tanto si sa, il cantante degli Edguy non riesce mai a trattenersi e finisce per lo sproloquiare anche oggi, ad esempio ricordando al termine della loro esibizione che il festival non è finito e pregando i presenti di non andarsene perché seguiranno grandi band, oppure andando a cantare anche sull'altro palco (il Cruefest Stage dove si stanno tenendo i preparativi per il concerto di Lita Ford) durante "Tears of a Mandrake".
Tuttavia nel complesso Sammet mi è parso meno in forma, sia fisica sia vocale, rispetto ad altre occasioni, ma il pubblico, sopratutto quello femminile, non ha trovato molto da ridire, lasciandosi trascinare per l'intero svolgimento del concerto.
Poco sotto trovate la scaletta del concerto, ed è evidente che oltre ai pezzi più recenti, trovano posto quelli che sono ormai dei classici del gruppo, come "Babylon" ("... do you like german fast power metal?"), "Lavatory Love Machine" (anticipata dall'immancabile sing-a-long con il pubblico) e sopratutto quella "Vain Glory Opera" cui sono particolarmente affezionato.
Bravi. Ancora.

Setlist:
Dead or Rock
Speedhoven
Tears of a Mandrake
Lavatory Love Machine
Babylon
Superheroes
Ministry of Saints
Vain Glory Opera
King of Fools
(Sergio Rapetti)

Lita Ford
Pur assegnandole un notevole talento e riconoscendole un innegabile ruolo “pionieristico” (dalle Runaways in avanti) per la credibilità del “rock al femminile” (in un ambiente abbastanza “ostile”), devo ammettere di non essere mai stato un fan sfegatato della musica di Lita Ford, ma ritrovarla su questo palco in ottime condizioni di forma, è stata sicuramente una bellissima sensazione.
Evidentemente il rock è meglio del “gerovital” (e questo vale pure di più per qualche altro protagonista della kermesse milanese … ad “esempio” gli Heaven and Hell … mamma mia che concertone!) e anche se la nostra per parecchio tempo si è dedicata solo a fare la madre e la moglie (di Jim Gillette, singer dei Nitro, oggi praticamente irriconoscibile!) in quel dei Caraibi, deve essere stato semplice per chi come lei gli effetti benefici di questa “medicina” li conosce fin troppo bene, abbandonare gli strumenti “casalinghi” e ritornare a gestire microfoni, chitarre, watts e adrenalina, vista la naturalezza con cui conquista l’audience con professionalità, scaltrezza e classe, dimostrando di poter concorrere tranquillamente, ancora una volta, all’ambito titolo di “First Lady” del settore (per la cronaca, anche se è fin troppo facile, ha spazzato via non solo la povera Lauren Harris, che continua a dover fare i conti con un cognome “pesante” almeno quanto la sua indigesta performance, ma anche quella di Simone Simons, la cantante degli Epica, che, seppur brava tecnicamente, a livello di carisma, ne deve ancora “mangiare di pagnotte”, anche tenendo conto del diversissimo ambito espressivo!).
Grazie all’abilità di una smaliziata entertainer (sdraiarsi sul palco, ringraziare il pubblico con un “ciao Monza, ti voglio tanto bene”, sedurlo con misurate dosi d’ammiccamenti di “scena”, sono tutti piccoli “trucchi”, senz’altro “familiari” e tuttavia sempre molto efficaci) e, soprattutto, per merito di una buona band (come di consueto) di maschietti pronti a supportare la loro capitana senza rubarle i riflettori (si fa per dire, siamo nel pomeriggio e il sole picchia ancora come un “fabbro”) e di un’eccellente setlist, la platinata Lita sfodera una prestazione piena d’entusiasmo e di qualità, che, come anticipato, non tarda a convincere anche i più scettici, categoria della quale io stesso ammetto di aver inizialmente fatto parte.
Ed ecco spiegato come un hard yankee tipicamente “ottantiano”, costruito su frizzanti melodie, grossi e contagiosi refrain e quelle atmosfere che sanno di leggerezza, romanticismo ed elettricità, tra un’anthemica “Gotta let go”, un’incalzante “Can’t catch me”, la viziosità di “Hungry”, la bellezza di “Falling in and out of love” e l’irresistibile appeal degli hit “Close my eyes forever” (in origine cantata in coppia con Ozzy Osbourne, che però, sfortunatamente, come annuncia la stessa cantante e chitarrista statunitense, “…is not here”) e “Kiss me deadly” (che riscuote il maggior livello di partecipazione da parte della platea) sanno ancora fare piuttosto bene il loro lavoro, almeno dal vivo.
Non ci resta che plaudere a questo (ennesimo!!!) rientro, nell’attesa che il nuovo album (previsto per la metà di settembre, titolo “Wicked wonderland”) faccia luce ancora più chiara sul futuro artistico di Lita Ford … a giudicare dal pezzo che, a chiusura del set di oggi, viene proposto in anteprima (un brano sostenuto da una pulsante linea di basso e da un suono complessivo vagamente “attualizzato”), potrebbe essere un ritorno in grado di riservare anche qualche sorpresa.
(Marco Aimasso)

Queensryche
Non smettono mai di stupire.
Chi, sinceramente, si sarebbe aspettato che, dopo le performance monotematiche consacrate a “Operation mindcrime” e freschi di un ottimo disco come “American soldier”, i Queensryche avrebbero deciso di suddividere le scalette dei loro nuovi spettacoli in tre “suite”, dedicando solo la parte centrale dei concerti all’ultimo lavoro in studio, affiancandola ad una sezione finale incentrata su “Empire” e addirittura, ad un segmento iniziale alimentato dal leggendario (ma spesso troppo trascurato) “Rage for order”?
Non in molti, credo, ma i “ragazzi” di Seattle sono fatti così, è un aspetto fondamentale del loro codice genetico l’essere inquieti, imprevedibili, mai propensi alla soluzione più “facile” (beh, diciamo quasi mai, … e se avete letto in passato, su queste stesse pagine, il mio modesto giudizio su alcune delle loro scelte, soprattutto a livello “etico”, sapete già a cosa mi riferisco), con le inevitabili “conseguenze” (in positivo o in negativo) che un’esistenza artistica così volubile, costantemente in cerca di nuovi stimoli espressivi e refrattaria all’omologazione, comporta.
Insomma, forse proprio una delle caratteristiche fondamentali che distingue i leaders dai followers, una di quelle peculiarità attraverso la quale si riesce ad individuare il genio vero, con tutte le sue emozionanti “complicazioni”.
Bando alle riflessioni personali, anche perché ho promesso a “qualcuno” (you know who you are!) che avrei cercato d’essere conciso … una scaletta sorprendente, si diceva e verosimilmente altrettanto “difficile”, per un pubblico (o parte di esso) forse non molto “abituato” ai brani di “Rage for order”, un capolavoro che, mettetela come volete, ha aperto la strada ad una nuova forma di metal tecnologico, sperimentale e teatrale, rappresentando un’autentica “scossa” pure per i fans del gruppo americano, che avevano lasciato una band “classica” (quella dei primi due dischi) e si ritrovavano con una formazione “futuristica” (anche nel controverso look!), cominciando a comprendere a fondo la personalità e la filosofia che animava le mosse dei loro prediletti.
(Ri)ascoltare “Neue regel”, “The whisper”, “Screaming in digital” e “Walk in the shadows”, canzoni pubblicate nell’86, ma dall’impressionante “attualità” (come giustamente rileva il “collega” Luca Franceschini, che ho avuto finalmente l’occasione di conoscere … una persona squisita oltre che un ottimo writer!), è sempre un’esperienza prodiga di scariche incessanti d’endorfine e anche se Geoff a volte sembra un po’ in difficoltà sulle note alte, durante la sua prova egli appare il solito “mostro” dell’interpretazione, supportato come di consueto da una band (compresi i membri “aggiunti” Parker Lungdren e Jason Ames!) che si distingue per competenza, sensibilità, professionalità e affiatamento.
Si passa, non senza appena un pizzico di “delusione” per alcune assenze (“I dream in infrared”, “London” …) ad “American soldier”, e devo dire che, da un disco immerso in ambientazioni enfatiche, profonde e malinconiche come questo mi sarei aspettato minore efficacia in un contesto live (e “diurno”), mentre alla prova dei fatti i pezzi selezionati, “The killer”, “A dead man’s words” e la potente “Man down!” non sfigurano affatto, per una valutazione pienamente positiva.
Si chiude con “Empire” e la sua sofisticata istantaneità, che transita attraverso “Best I can”, “The thin line” (Geoff suona il sax!), “Jet city woman” e la stessa title-track di quell’albo ancora una volta pressoché perfetto, situazioni di grande coinvolgimento capaci di mettere d’accordo i consumati sostenitori dei Queensryche e quelli che, magari leggermente meno “preparati”, non hanno apprezzato completamente una setlist per certi versi un po’ “rischiosa”.
Con i saluti di rito, termina un altro concerto di notevole suggestione emotiva degno di essere conservato nella memoria, compresa quella pioggia (iniziata a cadere durante “A dead man’s words”) non particolarmente copiosa ma alquanto fastidiosa, e qualche piccolissimo intoppo tecnico, che ne hanno un po’ limitato la godibilità. Abbastanza inspiegabile, poi, la decurtazione rispetto al programma previsto, di quasi quindici minuti d’esibizione. Va bene che quello che conta è la qualità delle emozioni e non la quantità, però …
(Marco Aimasso)

Tesla
Quando sul palco di destra arrivano i Tesla la pioggia, che ha iniziato a cadere a metà del set dei Queensryche, si è un po' calmata, ma non sembra avere intenzione di cessare del tutto.
Poco male, perché questa è la prima (e forse anche unica!) occasione che ho di vedere questa band dal vivo, e rimarrei sotto al palco anche con la grandine!
La band di Jeff Keith è da poco tornata con un album meraviglioso come “Forever more” e questa sera è assolutamente intenzionata a fare bene, anche perché manca dal nostro paese da tanto, tantissimo tempo. Attacco come da copione, con “Forever more” e “I wanna live”, in un crescendo di potenza che entusiasma i numerosi presenti. I cinque sono in palla, i suoni sono ottimi e la voce di Jeff graffia come non mai, facendo dimenticare la prova un po' imbolsita offerta sul recente dvd “Cumin' Atcha live”. Al terzo pezzo ecco il primo classico: “Modern time Cowboy”, accolto da un vero e proprio boato dalle prime file. Peccato solo che dopo qualche secondo il basso di Brian Wheat cominci a fare le bizze, costringendo i tecnici ad intervenire in corsa, affannandosi attorno all'amplificatore, mentre la canzone veniva interrotta e un divertito Jeff Keith scherzava col pubblico, per nulla innervosito da questo inconveniente (anni e anni di sudore e palchi serviranno pure a qualcosa!). Sia stata o meno la pioggia a provocare tutto questo, per qualche minuto ho sudato freddo: il rischio di un annullamento o di un taglio drastico di setlist pareva piuttosto reale. Per fortuna però la cosa viene messa a posto, e il pezzo può essere fatto ripartire da capo. Da qui in poi, nessun problema, nessuna interruzione, solo pura energia rock and roll. I Tesla sono completamente padroni del palco, Jeff è un frontman eccezionale e questa sera la sua prova vocale è ottima, le due asce Frank Hannon e Dave Rude appaiono perfettamente amalgamati e sciorinano riff e soli che è un piacere. La sezione ritmica con Troy Lucchetta e Brian Wheat è un motore potente e inarrestabile. Che siano una delle più grandi live band di sempre, seppure sottovalutati, è fuori discussione. E il pubblico li ripaga alla grande: i loro fan sono accorsi numerosi e sotto il palco c'è un bel macello. Dal canto loro, anche i fan di Motley Crue ed Heaven and Hell non possono esimersi dal tributare i giusti onori a questa band, così che durante il loro set la partecipazione è altissima. “Breakin' free” è l'ultimo pezzo estratto dal nuovo album, dopodiché sarà tutto un susseguirsi di classici: l'accoppiata “Hang Tough”/“Heaven's trail” è da paura, poi arriva addirittura “Getting better” e allora chiedere di più diventa impossibile! Ma i nostri non sono stanchi, si divertono un mondo e hanno una voglia incredibile di darsi al pubblico italiano. E allora via con una emozionante “Love song”, ovviamente cantata in coro da tutti quelli che la conoscevano (parecchi), poi il rock allegro e scanzonato di “Signs”e “Little Suzie” e la più recente “Into the now”. Tutto offerto sul piatto con un’energia incendiaria da pelle d'oca.
E il bello deve ancora venire: Dave e Frank iniziano a duellare con le loro chitarre, prima che il resto del gruppo rientri per una potentissima “Cumin' atcha live”: senza questa non li avrebbero fatti andar via! Da ultimo, c'è spazio ancora per una incandescente “Rock me to the top”, a chiudere degnamente un concerto che definire fenomenale è dir poco. I veri vincitori del festival, non ho alcun dubbio. Una band che sembra non sentire il passare degli anni, e che vive la musica con passione, divertimento e spontaneità, cosa che oggigiorno non si riscontra sempre dovunque. Grandi Tesla, spero ritornerete presto dalle nostre parti!
(Luca Franceschini)

Heaven & Hell
Spiegare per l’ennesima volta chi siano realmente gli Heaven and Hell, mi pare superfluo e quasi offensivo. Qualsiasi appassionato di heavy-music, anche il più distratto e superficiale, sa che dietro questo nome si nascondono alcuni maturi musicisti, senza i quali buona parte del suddetto genere non esisterebbe neppure.
Inevitabile che di fronte a personaggi di tale calibro, la passione, l’eccitazione, il coinvolgimento, il fascino carismatico, raggiungano vette massime in tutti i tipi di spettatori, dai più freddi ai più scatenati. Ma non si pensi che il giudizio entusiastico sul loro concerto, sia soltanto un omaggio alle glorie passate di un gruppo di signori già avanti con gli anni. L’esibizione dei Black Sabbath (non dite ad Ozzy che li chiamo così….nda!) è stata impeccabile, esaltante, travolgente, sotto tutti i punti di vista.
La potenza e l’esperienza di Appice, il lavoro tutt’ora esplosivo del basso di “Geezer” Butler, gli incantesimi avvolgenti del monumentale Tony Iommi, insieme all’indiscutibile qualità delle canzoni proposte, non hanno perso nulla della loro storica magia e nello stesso tempo sono apparsi eternamente attuali. E’ sufficiente notare come il gruppo sia riuscito a rispolverare e rivitalizzare brani quali “I” e “Time machine”, tratti dal discusso “Dehumanizer”, che qui al Gods hanno rivaleggiato con hits ben più famosi ed acclamati.
Doveroso poi spendere qualche parola su R.J.Dio, cantante al quale la natura non ha dato l’imponenza fisica, compensando però con un’altra dote: la grande voce. Anche se ormai ingrigito, il folletto ha dominato come sempre la scena sia nelle parti tirate e metalliche di “The mob rules”,”Die young” e “Neon knights”, quanto nelle atmosfere cariche di tensione e drammaticità in “Children of the sea” e “Heaven & hell”. Quest’ultimo capolavoro ci viene offerto in una versione extra-lusso, una cascata di spunti musicali da far impallidire qualsiasi concorrenza.
Senza nulla togliere agli altri artisti presenti, è apparso di una chiarezza abbagliante il divario tra una formazione che ha praticamente inventato un modo di fare rock, ed i tantissimi, pur bravi, che lo hanno solamente adottato ed interpretato. Ancora oggi, gli Heaven and Hell rappresentano un esempio ed un metro di paragone per lo scenario musicale mondiale.
(Fabrizio Bertogliatti)

Motley Crue
Alle 23 in punto (su questo tanto di cappello a quest’edizione del Gods: puntualità e precisione degni dei migliori festival stranieri) il telone che ha coperto lo stage fino a pochi minuti prima cade a terra e lo show dei Motley prende il via sull'attacco fragoroso e irresistibile di “Kickstart my heart”. La promessa di eseguire dal vivo l'intero “Dr. Feelgood” per celebrarne il ventesimo anniversario si è rivelata una bufala sin dall'inizio del tour europeo, per cui quello che mi aspettavo era semplicemente una bella carrellata di classici. Così è infatti: a ruota arrivano “Wild side” e “Shout at the devil”, seguite dalla strepitosa “Saints of Los Angeles”, title track dell'ultimo, validissimo album del quartetto statunitense. I centinaia di glamsters che hanno affollato il Brianteo sin dalle prime ore del pomeriggio, aggirandosi per l'area del festival totalmente indifferenti agli altri gruppi, possono ora gioire della presenza dei loro beniamini. I quali, è giusto dirlo, offrono uno show potente e dinamico, all'altezza della fama di live band incendiaria che li contraddistingue. Vince Neil oggi è in forma e anche Mick Mars, nonostante la malattia di cui soffre, tira fuori dalla sua chitarra riff assassini e si rende autore di una prestazione davvero maiuscola. Tommy Lee è la solita potenza della natura, mentre Nikki Sixx saltella in lungo e in largo com’è solito fare. I classici si susseguono uno dopo l'altro: “Live wire”, “Don't go away mad”, “Same old situation”, ”Primal scream”, “Girls, girls, girls”, inframmezzate dalla sola “Motherfucker of the year” dal nuovo album (divertente il siparietto tra Tommy e il pubblico, quando cerca di spiegarne il significato ma si accorge dopo poche battute che la maggior parte dei presenti non riesce a comprendere il suo americano stretto: “Non mi capite? Vabbeh, chissenefrega, il pezzo spacca adesso ve lo dimostro!”). Il tiro e la potenza di ogni pezzo sono al massimo, la band sembra darci dentro di brutto, eppure qualcosa non convince: non riesco a definire bene che cosa sia, ma ho come l'impressione che tutto faccia parte di un copione già scritto e rappresentato con fedeltà e precisione. Ci sono i pezzi famosi, ci sono gli sproloqui di Tommy e Nikki, ci sono le pose da frontman di Vince, non ci sono le ragazze (peccato! Da questo punto di vista questo show è più sobrio di quello degli anni passati, anche se quando viene lanciato un reggiseno sul palco Nikki non può nascondere la sua contentezza), ma per il resto tutto è come deve essere. Non lo so, forse sono un po' troppo maligno, ma facendo il confronto con i Tesla, che si sono semplicemente dati ai loro fan, suonando col sorriso sulle labbra e con l'aria di divertirsi un casino, senza troppe pretese da accampare, i Crue si siano comportati da rock star multiplatinate, che si degnano di dare al pubblico ciò che il pubblico vuole, che vendono la propria musica esattamente come si fa con qualsiasi prodotto. Non me ne vogliano i fan della band, ma io ho avuto questa impressione. Tutto bello formalmente (anche i cori, che ho avuto la netta impressione fossero registrati), belle luci, palco imponente, scaletta incentrata sui vecchi successi, prestazione energica e trascinante. In fondo in fondo però, è stato come se non ci fosse nulla. Quattro individui prigionieri del proprio status, condannati a dover ripetere gli stessi gesti all'infinito. E la brevità della scaletta (dodici pezzi, per poco più di un'ora di spettacolo) non è che la ciliegina sulla torta di quanto detto prima: sarà anche che non ce la fanno a fare di più, sarà che Mick ormai due ore non le regge, eppure trovo che un'ora di show sia davvero poco per dei fan che hanno pagato 50 euro solo per vedere loro. Non lo so, io personalmente mi sono divertito, ma rimane comunque la sensazione che la vera musica sia un'altra. Se ne può comunque discutere...
(Luca Franceschini)
Report a cura di Sergio 'Ermo' Rapetti

Ultimi commenti dei lettori

Inserito il 13 lug 2009 alle 22:55

la parola più indicata è la prima della recensione.."carrozzone".

Inserito il 12 lug 2009 alle 22:14

Far suonare i Motley Crue dopo gli Heaven & Hell è stato crudele anche per loro: la differenza di spessore è stata troppo evidente... Grandi i Queensryche, malgrado i problemi tecnici una tenuta del palco favolosa!! OK i Tesla

Inserito il 10 lug 2009 alle 08:37

Mi domando quale potrebbe essere la sorpresa che si attende Marco Aimasso dal nuovo lavoro di Lita Ford. Per chi non conosceva la musica di Friedman, tirata d'orecchie: è un musicista ispirato, Dragon Kiss e i pezzi con gli Hawaii sono sempre nella mia playlist. :D