D’ora in avanti quando dovrò sostenere un discorso riguardo l’evoluzione musicale di un gruppo, inizierò portando l’esempio dei Murder 1.
Formazione dell’area Newyorkese, si erano messi in luce nel 1997 con il debutto “Shopping for porn”, abrasivo e devastante album di punk/metal senza compromessi. Questo li ha trascinati in una serie di tours con i maggiori esponenti della scena hardcore e addirittura ad una collaborazione con il famigerato rapper-rocker Kid Rock, culminata nel loro secondo cd “American junkie” (1999). Tanto per capirci, cavalli di battaglia del disco erano brani come “You fucked my girlfriend” e “We sold our sperm for rock’n’roll”, il chè dovrebbe chiarire di che tipo di gente si tratta.
Musica, liriche, perfino il look, indicherebbero senza ombra di dubbio l’appartenenza allo stesso genere, per esempio, di Anal Cunt ed affini. Invece i Murder 1, fulminati da improvvisa venerazione per il passato, tirano fuori un terzo album completamente differente, uno dei più splendidi esempi di heavy rock old-style che mi sia capitato negli ultimi tempi.
Un’immersione nel sound sporco, ruvido, glorioso, dei Blue Cheer o dei Cream, un tuffo nell’energia essenziale e classica dei primi Purple o dei Grand Funk, associando la moderna intensità dello stoner-psych dei Celestial Season o dei Magnet di “Spine of god”. Insomma un orgia di jams elettriche magnetiche ed orgogliosamente demodè, con la spettacolare lead di Iceberg a condurre il gruppo nel reame dell’improvvisazione, senza timore di confrontarsi con i mostri sacri del passato, vedi il favoloso stravolgimento dell’anthem Ufo “Rock bottom”, espanso in un uragano chitarristico che sfiora i dieci minuti e che finalmente dà un senso al concetto di “cover”.
L’ispirazione ai padri settantiani è una costante del lavoro, la sinuosa “Pimp killer” con i suoi eleganti intrecci di chitarra e tastiera uniti ad un refrein orecchiabile, rispolvera le intuizioni più grintose degli Atomic Rooster, mentre “Helm’s deep” innesta un soffio di morbida psichedelia in un tessuto acustico alla Jethro Tull, sferzando il tutto con strappi brucianti e drammatici. Un episodio semplicemente maestoso. A bilanciare le lunghe divagazioni troviamo “Back to g.13” e “Viva le rock”, un paio di brani di sintetico e massiccio hard rock dal suono appiccicaticcio e pastoso, blueseggianti, arricchiti dall’intonazione soul di Will Naga, dall’indole solare e stonata, ma il tema principale resta l’escapismo fiammeggiante di una “White horse trail” dalla spessa stuttura rockblues, o l’heavy-psych pesantemente acido di “The raver, the Naga and the Holy Spirit”, un mantra colossale pieno di fughe spaziali e di mirabilie dello strepitoso Iceberg, una canzone che appartiene alla scuola dei Core o dei Datura, un gioiello del nuovo rock psichedelico.
C’è un unico neo nel bellissimo “On high” ed è nella song conclusiva, follia che mischia una prima parte distorta e noise con una interminabile coda, che consiste in un pazzesco assolo della lead sul quale vengono sovrapposte soltanto delle voci che immagino provengano da qualche radio locale. Uno di quei pezzi che si ascoltano un paio di volte per curiosità, per poi saltarli sistematicamente. D’altronde da una band che passa con disinvoltura dal punk allo stoner retrò, qualche stranezza c’è da aspettarsela.
Un album veramente brillante, stimolante e corposo. Una prova maiuscola da un gruppo che si inserirà tra i preferiti di chi apprezza lo stoner che rivisita il passato con la mentalità dell’improvvisazione “free”. Un segnale della vivacità di questo settore sempre pronto a regalare sorprese formidabili ed inaspettate.