Copertina 7,5

Info

Genere:Heavy Metal
Anno di uscita:2005
Durata:non disponibile
Etichetta:Nuclear Blast
Distribuzione:Audioglobe

Tracklist

  1. PASSION (INTRO)
  2. THE LAST SUPPER
  3. DESERT ROSE
  4. GRAVE IN THE NO MAN’S LAND
  5. HELL TO PAY
  6. SOUL SAVIOUR
  7. CRUCIFIED
  8. DIVIDED CROSS
  9. THE NIGHT BEFORE
  10. BLACK WIDOWS
  11. HUNDRED DAYS
  12. ALWAYS AND ETERNALLY

Line up

  • Chris Boltendhal: voce
  • Manni Schmidt: chitarre
  • Jens Becker: basso
  • Stefan Arnold: batteria
  • H.P. Katzenburg: tastiere

Voto medio utenti

Finalmente i Grave Digger l’hanno capito. Dopo una serie di concept album a sfondo storico e mitologico, nel probabile tentativo di sfruttare il più possibile il successo del capolavoro “Tunes of war” (che nel 1996 diede finalmente alla band il meritato successo di pubblico che inseguiva da un decennio), ma che si risolvevano il più delle volte in prove scialbe e prive di idee, la band, complice anche l’ingresso alla chitarra dell’ex Rage Manni Schmidt, aveva provato a sterzare verso un sound più cupo e aggressivo, con meno cori altisonanti e più rabbia metallica, proprio come agli esordi. “The grave digger”, uscito nel 2001, è stato senza dubbio il miglior lavoro dai tempi di “Tunes of war”, ma poi la probabile paura di osare troppo e perdere fans ha avuto la meglio, la band di Chris Boltendahl ha dato alla luce il pessimo “Rheingold”, e le cose sembravano ormai perdute per sempre.
Ecco invece arrivare questo “The last supper”, un disco con il quale i Grave Digger tornano a fare i Grave Digger, lasciando da parte mal riuscite imitazioni dei Blind Guardian, e sfoderando undici canzoni semplici e dirette, dalla potenza devastante e dal refrain irresistibile, esattamente come nella miglior tradizione del metal tedesco degli Eighties.
Il trittico iniziale è da brividi e basta da solo a mettere le cose in chiaro: la title track è un mid tempo roccioso e incalzante, con la voce di Chris che graffia come non mai, e che esplode in un ritornello che è Grave Digger al 100%. “Desert Rose” inizia con un riff vagamente americano, che potrebbe anche essere uscito da un disco dei Symphony X, e sorprende per il ritmo saltellante della strofa, segno che dopo vent’anni c’è ancora la voglia di provare soluzioni nuove, pur mantenendo immutato il sound originario. “Grave in the no man’s land” è probabilmente il brano più bello dell’intero disco: un altro mid tempo (pochi i brani veloci nell’arco del disco) dal riff semplice ma efficacissimo, e un ritornello eccezionale, tra i migliori in assoluto di tutta la produzione della band!
Proseguendo nell’ascolto le impressioni iniziali vengono confermate in pieno: “Hell to pay” è una mazzata sui denti, e si avvale anche di un giro di tastiere ai limiti del gothic, che crea davvero un effetto interessante e particolare. E proprio le tastiere mi sembrano essere l’arma in più di questo lavoro: meno invadenti che in precedenza, si limitano a pochi ma efficacissimi interventi, donando un tocco particolare e una marcia in più alla maggior parte dei brani.
Un altro pezzo memorabile è “Crucified”, una lunga e sofferta marcia funebre di otto minuti, in cui chitarra acustica e tastiera creano il tappeto ideale per il doloroso cantato di Chris, che contrasta con un ottimo refrain dalla melodia ariosa e orecchiabile: eccezionale!
“Divided cross”, possiede un’ottima melodia di chitarra portante e un altro ritornello assassino, è un altro pezzo fresco e dinamico che riscuoterà grande successo dal vivo. Purtroppo questo è anche l’ultimo episodio davvero degno di nota, perché nel finale i Grave Digger preferiscono autocelebrarsi, donandoci tre pezzi piacevoli ma non indispensabili, tra cui la migliore è senza dubbio “The night before”, una fast song che non mantiene putroppo tutte le promesse presenti nel suo potentissimo attacco.
Chiude “Always and eternally”, una ballata di cui senza dubbio non sentivamo il bisogno, scontata nelle melodie e piatta nell’interpretazione: “Ballad of Mary” rimane un lontano ricordo, e ormai questo genere di cose è forse meglio lasciarle perdere…
In definitiva dunque i motivi per essere felici ci sono eccome: “The last supper” è un gran bel disco, ottimamente suonato e prodotto, un disco che ci restituisce i Grave Digger come quasi mai gli avevamo sentiti negli ultimi anni. Certo, toccare di nuovo i livelli di “Tunes of war” o “Heart of darkness” non era cosa facile, ma ci sono almeno quattro o cinque pezzi che ci vanno maledettamente vicino, e anche il resto non è affatto male… li attendiamo dal vivo per un giudizio definitivo, ma l’impressione è che i cinque becchini tedeschi abbiano ancora tante cose da dire!
Recensione a cura di Luca Franceschini

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