Nella musica, così come in tanti altri ambiti dell’esistenza umana, l’essere credibili e creativi, rende “speciali”.
Tanto più se, limitandosi ai temi che dibattiamo precipuamente su queste pagine, si sceglie di frequentare quelle contaminazioni sonore che una volta si riunivano sotto la denominazione “crossover”, intesa, nei casi più eclatanti, come felice sintesi di stilemi espressivi distinti.
Ebbene, alla credibilità di
Daron Malakian and Scars on Broadway contribuisce senz’altro il prestigioso
background del loro
leader (chitarrista e co-fondatore dei System of a Down, per chi avesse vissuto sulla luna negli ultimi trent’anni …), mentre per quanto riguarda la creatività credo sia sufficiente un ascolto di questo “
Addicted to the violence” per cancellare ogni eventuale dubbio in merito.
L’approccio della
band è fatalmente affine a quello dei SOAD, ma qui si va anche oltre (il che non vuol dire per forza “migliore” …), evitando così una “sovrapposizione” poco costruttiva.
Alimentato da una critica sociale, politica e “generazionale” (“
Killing spree”,
opener e primo singolo dell’albo, è un’invettiva indirizzata alla gioventù odierna, ritenuta pressoché totalmente priva di emozioni, empatia e rispetto per la vita …) forte e diretta, e tuttavia priva di ogni forma di sterile moralismo, il disco si sviluppa alternando paranoia, rabbia, potenza e affabilità, il tutto pilotato da una voce che sa essere incitatoria e suadente e da un
pathos complessivo assai “impressionante”.
Attraverso una chiave interpretativa che affianca modalità espressive collaudate a soluzioni maggiormente “personali” (grazie anche all’uso immaginoso delle tastiere) “
Addicted to the violence” non rischia dunque di sembrare la pavida copia di “qualcun altro”, anche quando, vedasi “
Killing spree” e “
Satan Hussein” la sua influenza si fa più evidente.
“
Done me wrong”, con il suo andamento incalzante e cangiante, è forse il primo vero esempio di una formula musicale che attinge al “noto” per sviluppare un proprio
trademark, e anche la successiva “
The shame game” stupisce per come il gruppo tratta la materia
psych-rock, avvolgendo l’astante in un fascinoso clima malinconico e cupo.
Il
groove denso, le scorie “cosmiche” e il cantato declamatorio e teatrale di “
Destroy the power” rivelano un’altra interessante sfaccettatura di una scaletta che in “
Your lives burn” diventa irruente e
punk-eggiante e in “
Imposter” mitiga l’impellente impetuosità attraverso un
refrain adescante.
Le influenze etniche concesse a “
You destroy you” la rendono una sorta di
folk-ballad dai tratti grotteschi e “gitani”, mentre tocca alle ammalianti schizofrenie di “
Watch that girl” e alle suggestive
prog-ressioni della
title-track (in cui si scorgono addirittura bagliori vagamente
Bowie-iani) dell’opera dimostrare come il concetto di
crossing-over tra i generi possa ancora rappresentare il brillante “superamento” dei nobili dogmi dei
rock n’ roll.
A chi sosterrà che i
Daron Malakian and Scars on Broadway di “
Addicted to the violence”, in realtà, alla fine, non propongono nulla di veramente “rivoluzionario”, dico solo che era parecchio tempo che questa “vecchia roba” non mi sorprendeva e appassionava così tanto.