Copertina 7,5

Info

Anno di uscita:2016
Durata:64 min.
Etichetta:Underground Symphony

Tracklist

  1. PATTERN
  2. FINITE INFINITE
  3. THE REINS OF LIFE
  4. EVOLUTION
  5. CIVILIZATION
  6. SUBTLE BORDERLINE
  7. THE WORLD BENEATH MY FEET
  8. FINE ART OF HAVOC
  9. THE GRIM LESSON
  10. DEEP SIX
  11. PILLAR OF HOPE

Line up

  • Claudia Nora Pezzotta: vocals
  • Gianluca Parnisari: keyboards
  • Graziano Franchetti: guitars
  • Luca Ravezzani: drums
  • Matteo Clark: bass

Voto medio utenti

Difficile essere originali quando si vuol fare prog metal sinfonico. Ci provano con successo gli esordienti Degrees Of Truth, formazione milanese nata appena un anno fa con ambizioni davvero molto elevate (sulla scia nei connazionali Virtual Symmetry, aggiungo).

L’equilibrio di musica elettronica, orchestrazioni misurate ed elementi heavy creato da Gianluca Parnisari e soci per questo "The Reins Of Life" è davvero encomiabile, e, anche se ancora un po’ acerbo, lascia ben sperare per il futuro.

Dopo l’introduttiva “Pattern” dalle tinte cinematografiche, è “Finite Infinite” ad aprire le danze, brano non particolarmente cattivo ricco di tastiere e orchestrazioni con la voce di Claudia Nora Pezzotta in primo piano. Segue la lunga e sfaccettata “The Reins Of Life”, traccia a mio avviso troppo densa a cavallo tra lirica, elettronica, metal, musical e sfumature esotiche. “Evolution” è più vicina ai canoni del metal sinfonico, con tanto spazio dedicato ancora all’elettronica, e prelude alla più breve (ma comunque elaboratissima) “Civilization”, dal finale classicheggiante. “Subtle Borderline” è un ottimo brano strumentale symph/prog introdotto (a sorpresa) da un organo Hammond, e anticipa la decisa “The World Beneath My Feet” (peccato per il ritornello un po’ banale). “Fine Art Of Havoc” è la canzone più pestata del lotto (con l’intro che ricorda “Father Time” e gli accenni growl), ed è in contrasto con la marziale “The Grim Lesson”, dal cantato forse troppo impiccato. “Deep Six” è la naturale evoluzione del brano precedente e anche questa volta le linee vocali non convincono appieno. Chiude il cerchio la suite “Pillar Of Hope”, organica e non eccessivamente carica (forse pure troppo poco per un finale) con tanto di coda narrata/strumentale.

Il potenziale c’è, e la Underground Symphony c’ha visto lungo come sempre. Sono perplesso sulla scelta di una cantante dai tratti lirici e penso che un vocalist più “granitico” avrebbe reso maggiore giustizia alla proposta del combo (a mio avviso il lavoro sulle linee vocali, non sempre incisive, rimane comunque prioritario). Avanti così, senza indugi.

E, come sempre, viva l’Italia.
Recensione a cura di Gabriele Marangoni

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