Copertina 5

Info

Anno di uscita:2016
Durata:44 min.
Etichetta:Rise Above Records

Tracklist

  1. THE DEVIL'S WIDOW
  2. LORELEY
  3. THE ROGUE'S LOT
  4. LORD OF MISRULE
  5. HALF MOON STREET
  6. THE WEIRD OF FINISTERE
  7. FLOWER PHANTOMS
  8. OLD FIRES
  9. THINGS PRESENT, THINGS PAST

Line up

  • Alia O'Brien: vocals, flute, organ
  • Sean Kennedy: guitars
  • Lucas Gadke: bass
  • Michael Carrillo: drums

Voto medio utenti

Può capitare di trovarsi in situazioni imbarazzanti. Esce il disco del tal gruppo, riceve giudizi sensazionali a destra e a sinistra, e all’ascolto approfondito da parte del sottoscritto sovvengono solo mille perplessità: dove ho sbagliato?

I Blood Ceremony non hanno bisogno di grandi presentazioni. Il quartetto di Toronto, ormai sulla breccia da qualche anno, si è ritagliato un suo spazio nel filone revivalistico di certe sonorità psych/doom/prog mutuate direttamente dagli anni Settanta. In questa giungla a qualcuno è andata molto bene (penso ai Wolfmother o ai White Stripes) ad altri sicuramente, e un po’ ingiustamente, meno (cito i nostrani Unreal City). “Lord Of Misrule” doveva essere (e forse lo è) il disco della consacrazione artistica dei canadesi ma ha, a giudizio di chi scrive, un neo imperdonabile: premi il tasto “PLAY” e ti ritrovi catapultato indietro di quarant’anni, tra assoli di flauto dei migliori Focus (indicare i Jethro Tull mi sembrava banale) e riff di chitarra chiaramente ispirati a Tony Iommi, soluzioni tastieristiche “scippate” agli Atomic Rooster e voci dall’incedere talvolta diabolico alla Arthur Brown, talvolta pastorale alla Pavlov’s Dog, con QUEI suoni, QUELLE atmosfere, QUEL mix “ottotraccesco” (ho coniato un neologismo) tipico del periodo. I nostri sono addirittura andati a Londra, presso i Toe Rag Studios di Liam Watson (quelli dove hanno registrato anche i sopraccitati White Stripes per intenderci) per immergersi totalmente nel mood ricercato e il risultato è un disco che, per tutti i motivi di cui sopra, non è per niente attuale, non vuole esserlo e sembra la ristampa del potenziale unico full-length di qualche band occulta di inizio Seventies.

Mi sono allora chiesto: “Perché riesco, ad esempio, a tollerare (anzi apprezzare) l’ultimo disco degli Opeth o le più recenti fatiche discografiche degli Spiritual Beggars, proprio io che sono cresciuto a pane e prog della vecchia scuola ma che non sopporto quel citazionismo che troppo spesso sfocia nel plagio?” Perché un disco degli Opeth, anche se acustico, anche se registrato “alla vecchia” con strumenti vintage, anche se “filtrato” dalle sapienti ed esperte mani di Steven Wilson, suona Opeth dalla prima all’ultima nota. Nel caso degli Spiritual Beggars è la percezione di “divertimento collettivo” a vincere sulla proposta musicale che, oggettivamente, altro non fa che tributare le vecchie glorie passate.

Per queste realtà così tanto derivative il mercato è floridissimo e sarebbe davvero un peccato non approfittarsene, lo riconosco, soprattutto per le loro tasche. Detto questo, se voglio godermi un Hammond che ruggisce, un Mellotron spettrale, un flauto virtuoso e penetrante, personalmente rivolgo le mie orecchie altrove: c’è a chi piace vincere facile, ma io vorrei lasciare gli anni a venire a chi è pronto ad affrontarli in maniera leale.
Recensione a cura di Gabriele Marangoni

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