Sapete qual è il problema dei gruppi come i
The Treatment? Le loro canzoni sono grintose, effervescenti, piene di brio, ma le idee musicali che contengono e il modo in cui vengono interpretate non sono praticamente mai ascrivibili alla
band stessa, in un pressoché costante
déjà entendu lungo, nel caso di questo terzo “
Generation me”, quarantotto minuti abbondanti.
Si potrà obiettare, e con ragione, che in fondo si tratta di un “difetto” molto diffuso e tuttavia ritengo che difficilmente formazioni di questo tipo riescano ad andare oltre una dignitosa prestazione artistica, anche parecchio divertente e coinvolgente, se vogliamo, eppure incapace di esplodere veramente nei sensi dell’ascoltatore appassionato e di garantirgli nel tempo un numero davvero significativo di scosse emozionali.
Con i nuovi
Mitchel Emms e
Tao Grey, rispettivamente cantante di valore (sebbene prediligessi il graffio maggiormente Tyler-
iano del suo predecessore
Matt Jones) e ispirato chitarrista, i britannici proseguono nel convinto percorso di celebrazione di AC/DC, Aerosmith, Thin Lizzy e Tesla e pur architettando con abilità il loro
hard-rock impulsivo e viscerale, il risultato finisce per essere un po’ troppo prevedibile, collocandosi nella fascia media della nutrita schiera dei prodotti ossequiosi della “tradizione”.
Sebbene privo di autentici “fuochi d’artificio”, il disco è comunque apprezzabile per una buona dose di
feeling e per le brillanti capacità tecniche dei protagonisti, in grado di esprimersi al meglio nelle pulsioni
aussie di “
Let it begin”, “
The devil” e “
Cry tough” o di avvicinarsi abbastanza “pericolosamente” alla prestazione di livello superiore nelle melodie adrenaliniche e cromate di “
Tell us the truth”, nel
groove di “
We are beautiful”, nelle pastosità
blues di "
Backseat heartbeat” e nelle scansioni Zeppelin-
esche di "
Better think again”, un pezzo finalmente gratificato da un pizzico di (con)vincente personalità.
Un albo che si ascolta con piacere e che però non riesce né a eguagliare la freschezza del debutto (“
This might hurt”, benché anch’esso pienamente coinvolto nel grande gioco delle “citazioni”, continua ad essere il mio preferito nella discografia dei nostri …) e né a decollare in maniera risoluta verso i vertici dell’appagamento
cardio-uditivo … è mia opinione che anche senza “inventare nulla” si possa (e si debba!) fare di più.
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