Nella nostra operazione di "chiusura fiscale 2025" stiamo tirando le somme dell'anno che va a concludersi, anche per preparare il listone che voi lettori dovrete votare per eleggere i dieci album più meritevoli.
Ci siamo accorti che all'appello nel database mancava la recensione del terzo album (uscito a febbraio 2025) dei "redivivi" francesi Inborn Suffering, incredibilmente tornati in attività dopo 12 anni di hiatus. Il nostro Graz ha tappato la falla lasciandosi annegare ancora una volta nell'immortale death doom dei nostri...A ben tredici anni di distanza e dopo aver sancito loro stessi la fine della band all'indomani della pubblicazione del loro secondo album "
Regression to Nothingness", tornano in maniera assolutamente sorprendente ed ahimè ovviamente del tutto anonima i parigini
Inborn Suffering, autori di due dischi meravigliosi come il già citato "
Regression to Nothingness" del 2012 e l'ancor più lontano esordio "
Worldless Hope", entrambi dediti a disperatissime sonorità death doom, tra echi di
Anathema e
My Dying Bride di inizi carriera ed atmosfere decadenti alla
Draconian; nessuna concessione alle mode né tentativi di modernizzazione, semplicemente un suono che si fa austero, pesante ed al tempo stesso profondamente introspettivo.
Oltre al batterista
Thomas Rugolino, il tastierista
Sebastien Pierre ed ai chitarristi
Stéphane Peudupin e
Laurent Chaulet, anche al microfono, i nostri vanno a ripescare a distanza di quasi venti anni anche il primo bassista
Emmanuel Ribeiro per quella che è una storica reunion a tutti gli effetti, con addirittura la presenza del primissimo chitarrista Loïc Courtete, il cantante del debut album Frederic Simon e la precedente bassista Mathilde Depernet che danno tutti il proprio contributo, quasi a voler chiudere il cerchio e coinvolgere ogni membro, presente e passato, della storia di questa che più di una band sembra un ensemble di sentimenti.
Dopo due singoli pubblicati nel 2023 e 2024 tornano tutti insieme e danno alle stampe per la spagnola
Ardua Music il nuovissimo "
Pale Grey Monochrome" che, fortunatamente, non muove di una virgola la direzione musicale dei nostri, sempre fermi ed immobili nella loro disperazione, alle prese con brani lunghissimi, quasi tutti sopra i dieci minuti di durata. Le già edite "
From Lowering Tides" e "
The Oak" vengono leggermente rielaborate con nuove vocals e chitarre aggiuntive, dando forma a questi 57 minuti di rassegnazione in musica.
Di nuovi ingredienti solo una piccola e moderata spruzzata: qualche alternanza della voce pulita, più presente che in passato, l'onnipresente e dilaniante chitarra solista di Peudupin ed un approccio solo lievemente più diretto rispetto alla monolicità dimostrata nei due album precedenti ma gli Inborn Suffering (che già dal monicker...) riaffermano una poetica che da sempre li contraddistingue, pesantemente e coscientemente ancorata stilistiscamente agli anni '90. È forse un album meno “impattante” sul mercato rispetto ai predecessori, ma artisticamente si colloca sullo stesso livello, con una sincerità che lo rende forse ancora più toccante.
Il titolo stesso, "Pale Grey Monochrome", riflette la condizione esistenziale dei membri della band: alcuni di loro convivono con la depressione, e questo dolore permea testi e musica. Non c’è rabbia né voglia di riscatto, ma un abbandono consapevole alla malinconia, che diventa quasi un conforto per chi vive le stesse sensazioni. Brani come "
Monochrome Skies", "
Ashes of Solitude" e lo struggente finale di "
Drawing Circles" incarnano perfettamente questa estetica: lentezza, pesantezza, un lirismo che si fa specchio di un disagio psichico ed emotivo.
Un ritorno sentito e coerente, che non aggiunge nulla di nuovo alla storia del death doom ma ribadisce con forza la voce personale degli Inborn Suffering. "Pale Grey Monochrome" è un disco che parla a chi ama il genere e a chi cerca nella musica un riflesso delle proprie fragilità. Non è un album di riscatto, ma di condivisione del dolore: ed è proprio questa sincerità a renderlo prezioso.
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