Nel 2002, la scena Black metal francese era in piena fermentazione e stava ridefinendo i canoni classici del genere — un processo che perfino capostipiti come
Blut Aus Nord stavano intraprendendo. Poi, ovviamente, vi erano i
Deathspell Omega, che di lì a poco avrebbero cambiato per sempre, in chiave dissonante, il volto della fiamma nera.
Esattamente in quell'anno anche gli intransigenti
Antaeus, con
"De Principii Evangelikum", iniziarono un percorso di sperimentazione — che confluirà, in seguito, in chiave più moderna, negli
Aosoth — ridefinendo ulteriormente i confini del genere.
In questo contesto, i
Nehëmah pubblicarono il loro album di debutto,
"Light of a Dead Star", rilasciato tramite l’etichetta
Oaken Shield. Un'opera che si distingueva invece per la sua fedeltà alle radici del Black metal, pur mantenendo una forte identità personale e arricchendolo con alcune sfumature fino ad allora poco esplorate.
"Light of a Dead Star" si presenta con chitarre fredde e taglienti, batteria incalzante e solenne nei momenti più cadenzati, e tipicamente in blast beat nelle fasi più veloci.
I
Nehëmah alternano sapientemente momenti di furia sonora a passaggi più lenti e meditativi, tra mid-tempo, down-tempo e partiture orientate alla dimensione atmosferica, creando un equilibrio tra violenza, melodia poetica dalle tinte malinconiche e un’atmosfera di grandissimo spessore.
Ciò che colpisce in un disco così tradizionale è, innanzitutto, la capacità suggestiva dell’interpretazione del Black misantropico della prima ora —
Darkthrone su tutti. In secondo luogo, spiccano le particolari armonizzazioni dai tratti mistici ed esoterici, talvolta quasi orientaleggianti, che innervano molti passaggi, in particolare quelli più lenti, riuscendo così ad affascinare e a lasciare un segno profondo.
Certo, anche in tali frangenti si avverte una certa derivazione stilistica — in alcune tracce si colgono echi di brani come
"Dracul va domni din nou în Transilvania" dei
Marduk — ma tutto viene soggettivato con successo. Soprattutto, gli arrangiamenti sono sopraffini e riescono a donare un tocco di imprevedibilità: ad esempio, quando le classiche sfuriate iconoclaste del Black si inseriscono all’improvviso, oppure dove si sperimenta con dinamiche atipiche e si assumono perfino tonalità prossime al Death metal.
Tutto ciò che vi ho esposto riflette coerentemente i testi dell’album, i quali sondano tematiche esoteriche, occultismo e una profonda e intima connessione con la natura e l’universo, confermando l’interesse dei
Nehëmah per il misticismo e l’introspezione.
Una delle tante perle di quest’opera è, a mio avviso, la voce di
Corven, principale artefice del progetto: cavernosa e distante, perfettamente padrona del suo ruolo, capace di veicolare a pieno il senso di alienazione, malinconia e mistero che i testi si prefiggono di esprimere.
"Light of a Dead Star" è un LP che, pur non rivoluzionando il genere, offre una visione autentica e profondamente personale della tradizionale Arte Nera dai contorni atmosferici. In un periodo in cui molte formazioni intraprendevano nuove direzioni sonore, i
Nehëmah scelsero — similmente ai
Craft di cui vi ho reso noto recentemente con la mia monografia — di approfondire le radici del genere, creando un'opera che ancora oggi risuona per la sua sincerità e intensità emotiva.
Un’abilità e un gusto per il sublime che confluiranno anche nel seguente
"Shadows from the Past...", uscito a solo un anno di distanza e di cui tratteremo a breve. Anche se
"Light of a Dead Star", a giudizio di chi vi scrive, rappresenta lo zenith artistico dei francesi.
Immersi nell’universo sonoro dei
Darkthrone e, più in generale, nel solco del
True Norwegian Black Metal, i
Nehëmah compiono un passo ulteriore: trasformano l’oscurità e la furia nichilistica in un rito intimo, poetico e spirituale, dove il gelo atmosferico si fa contemplazione e il caos diventa veicolo di trascendenza.