Excursus / Naked City: Jazzisti prestati al Grindcore, tra astmosfere noir e visioni sadomaso

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Pubblicato il:18/01/2023
Noi di Metal.it si sa, siamo molto attivi a tutto quello che è presente nell’underground e a tutte quelle proposte particolari e singolari presenti in questo magico universo musicale qual è il Metal. Quindi della serie “amore facciamolo strano” questo giro faremo una monografia su una band assolutamente fuori dagli schemi che sfugge a qualunque banale classificazione, cioè i Naked City. Guardiamo per un attimo alla line up di questo combo: al sassofono abbiamo John Zorn, jazzista con le mani in pasta pure nel Punk e nel Metal (con alcuni suoi album solisti successivi che vedono la presenza di un certo Mike Patton e all’altro suo progetto Deathgrind/Jazz, i Pain Killer fondati insieme allo storico batterista dei Napalm Death, Mick Harris), oltre che nella musica popolare ebraica (Masada/Electric Masada) e in quella contemporanea o nelle colonne sonore da film; si prosegue poi con l’improvvisatore Fred Frith al basso, noto specialmente per la sua attività con il Progressive avanguardistico degli Henry Cow, oltre ad alcune prestigiose collaborazioni (specialmente con Brian Eno e Mike Oldfield); si procede poi con il chitarrista Jazz Bill Frisell, uno dei musicisti più stimati degli ultimi anni in questa scena musicale; alla batteria e alle percussioni troviamo invece Joey Baron che oltre ad essere uno storico collaboratore dello stesso Zorn in altri progetti musicali è un session member molto richiesto; poi abbiamo anche il tastierista Wayne Horvitz e ultimo, ma non per importanza, Yamataka Eye alla voce, il terrorista sonoro fondatore dei Boredoms, band Japanoise/Psichedelica made in japan.
Da questo possiamo già vedere infatti che abbiamo una serie di musicisti Jazz presi in prestito dal Grindcore, con un cantante della scena Noise nipponica a far da corollario alle folli e strampalate visioni di John Zorn.

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Un background musicale ed attitudinale incredibile insomma che darà il via nel corso di pochi anni ad una parabola Grindcore/Avant garde Metal più unica che rara.
Detto questo possiamo benissimo addentrarci in questo strano, perverso e allo stesso meraviglioso affresco Jazz/Grind tra pennellate noir, visioni sadomaso, violenza urbana e un gore sanguinolento che sicuramente non vi lascerà indifferenti!

Genere:
Grindcore
Avant garde Metal
Drone Doom Metal
Jazz/Fusion

Periodo di attività:
1988 – 1993
2003

Dopo aver disquisito di questa stravagante line up possiamo cominciare a parlare della discografia di questo gruppo. Ma come mai “stravagante line up?” Beh, non capitano tutti i giorni band Grindcore con tastieristi e sassofonisti al loro interno, senza contare le esperienze musicali molto distanti da questo genere, ma da cui si vede in maniera limpida e trasparente la grande apertura mentale di questi musicisti: S.O.B., E.N.T., Napalm Death, Repulsion e Carcass sono stati delle grandi influenze per la band di New York, ma accanto ad esse ed in quel sound così marcio, istintivo, primordiale e selvaggio ecco che l’eleganza, la raffinatezza e la complessità ritmico/strumentale del Jazz di gente come Ornette Coleman vanno ad annidarsi in questi lidi, oltre ad omaggi vari fatti a musiche da film tra le quali spicca l’altisonante nome di Ennio Morricone.
Ecco che nel 1989 da questo super gruppo viene rilasciato l’esordio omonimo, che è un chiaro manifesto della band, audacie, spregiudicato, strafottente e micidiale: abbiamo il lato Jazz del combo nippo-americano è molto vario ed aperto a contaminazioni varie tra accenni Rock, palpatine allo Swing, svisate Country e atmosfere Surf sessantiane, con improvvisazioni frizzanti e con continui cambi ritmici e stilistici all’interno di molte composizioni.
Dalla dolcezza e sensualità del Jazz o della OST del cinema d’autore di "Batman", "The Sicilian Clan", "The James Bond Theme", "I Want To Live" o di "Lonely Woman" si passa con assoluta disinvoltura a brevissime e destabilizzanti schegge Noisecore (chi si ricorda dei 7 Minutes Of Nausea o degli Anal Cunt?) imbastardite con il Jazz dalla durata inferiore al minuto: ecco che in questa girone dantesco Jazzcore in meno di tre minuti e mezzo le varie "Igneous Ejaculation", "Blood Duster", "Hammerhead", "Demon Sanctuary", "Obeah Man", "Ujaku", "Fuck The Facts" e "Speedball" ci danno quello che è conti fatti “un disco all’interno del disco” nel quale abbiamo a tutti gli effetti un perfetto stupro ai normali appigli del Grind e pure del Jazz, con un’attitudine completamente strafottente alla chiusura mentale e alle barriere dei generi.
Un tocco assolutamente avanguardista al genere che non disdegna né la Fusion, né influenze Progressive: "Graveyard Shift", "Snagglepuss", il Country/Grind di "N.Y. Flat Top Box" e "Punk China Doll" si giunge alla Fusion strumentale spumeggiante nelle prove soliste di "Latin Quarter" e "Inside Straight".
Con tutta questa carne al fuoco ci rendiamo conto dei mille volti di questa band, che con curiosità, divertimento e capacità fa un lavoro di gran livello che per via della sua stravaganza musicale ed attitudinale potrebbe addirittura piacere a più persone di quello che si potrebbe credere: dal jazzista amante di Miles Davis, al fan intransigente dei Napalm Death, al nerd conoscitore dei King Crimson, al curioso estimatore dei Faith No More questo è il classico gruppo che potrebbe sorprendere un po’ tutti.




Nel 1990 il sestetto sforna uno dei loro dischi più amati nella scena Grindcore, quello che è riconosciuto da molti come un capolavoro da appuntare e da tramandare ai posteri: "Torture Garden".
In esso esplode in tutto e per tutto il fervido e stimolante immaginario sessuale tipico del BDSM (con tanto di copertina esplicita, tra padrona, la relativa sottomessa e frustino) abbinato ad un elemento Gore/Splatter che farebbe la felicità perversa dei Cannibal Corpse.
Tra l’altro "Torture Garden" racchiude in seno le brevi schegge Jazzcore dell’esordio con quelle che poi compariranno nel successivo "Grand Guignol". Si ok, ma la musica? Beh essa non lascia letteralmente scampo a nessuno, già vedere quarantadue canzoni stipate in appena venticinque minuti di musica dovrebbe già farci capire qual è la direzione di Zorn e compagni.
Ma cosa ci si può aspettare in un turbinio infernale nel quale poche canzoni raggiungono il minuto di durata? Per Zorn e soci la risposta è semplice: approfondire il lato Noise/Grind della loro proposta e accorparci tante influenze per rendere il sound sempre più improbabile e imprevedibile.
Riffs pesanti e oscuri tipici del Thrash/Death Metal alternati ad altri decisamente più Rock oriented, influenze Progressive, ritmiche Funky e Crust Punk, strizzatine al Blues, alle atmosfere leggere e spensierate della Surf Music o dello Swing, piccoli inserti Ambient e qualche piccola divagazione Country con una totale mancanza della normale forma canzone spesso e volentieri … un guazzabuglio sonoro che prima di allora non si era visto nella scena Grindcore e che tutt’oggi rimane ineguagliato, pure dallo stesso Zorn, giustamente citato spesso dalla critica specializzata nei top album o pietre miliari del Grindcore tutto, cosa che pure io sto effettivamente facendo ora.
Tutto questo melting pot sonoro che da suoni puliti e raffinati passa a cose decisamente più marcie e selvagge abbiamo quindi un riffing tritaossa, cambiamenti ritmici e stilistici repentini, assoli veloci e forsennati, vocals destabilizzanti (a volte in coppia con lo stesso Zorn come in uso da molte compagini del Crust Punk e del Power Violence) che non sono altro che urla primordiali e feroci senza alcun senso logico, visto che per i nostri terroristi sonori le parole erano effettivamente inutili.
Inoltre il missaggio e la produzione sono di assoluto livello, rendendo distinguibile il tutto, con una proposta del genere sarebbe stato facile trasformare questo caotico girone dantesco in un pastone sonoro non ben definito, cosa che per nostra fortuna non è avvenuta, ma anzi dalla miglior tradizione del Jazz americano i suoni sono sempre puliti, limpidi e ben bilanciati.
In totale anarchia compositiva e con un certo grado di sbeffeggiamento verso un po’ tutti in questo "Torture Garden" abbiamo un frullato sonoro e attitudinale più unico che raro, un faro per personaggi che magari gravitano in ambiti diversi (vedasi Mike Patton con i suoi vari progetti musicali o i Melvins tra i tanti) ma accomunati dalla stessa attitudine sperimentale mista ad un vena ironica e autoironica.




Il super gruppo nippo-americano intanto continua la sua folle attività live nei jazz club nordamericani ed europei lasciando per lo meno di volta in volta esterrefatto il pubblico presente vista la sbilenca e strampalata proposta musicale e per gli energici live act. Per un nuovo album bisogna aspettare il 1992, quando esce "Heretic, Jeux des Dames Cruelles".
Rispetto ai primi due album si cambia notevolmente: gli elementi Punk, Metal, Grindcore del loro sound vengono completamente accantonati, in un lavoro completamente improvvisato in quello che è un perverso coacervo Jazz e Noise.
In questo pasticcio vi sono pure dei piccoli spezzoni Ambient che danno uno strano senso di calma e rilassatezza per poi farci rituffare in soluzioni decisamente bislacche.
Non tutto è da buttare, anzi vi sono degli episodi decisamente fortunati come l’ottima perfomance chitarristica in "Saint Judes", seducente ed elegante, o ancora "Slaughterhouse/Chase Sequence", la divertente "Sex Games" o la raffinata e notturna "Fire and Ice"… peccato che il resto oltre ad essere decisamente più azzardato e sperimentale sia pure meno riuscito. Ecco che tra effetti vari, i deliranti duetti tra i sax di Zorn e le urla del singer Nipponico, improvvisazioni rumoristiche scollegate ed una forte altalena qualitativa abbiamo un lavoro sconclusionato che, vede il suo utilizzo come colonna sonora per un film porno-sadomaso fatto nella terra del sol levante come la sua unica ragione d’esistere, in quella che è una perfetta rappresentazione musicale di tutto ciò: se questo sia un bene o un male francamente non so dirlo.
Da ascoltare più per semplice curiosità che per una reale necessità e qualità intrinseca quindi.




Sempre nel ’92 esce "Grand Guignol" nel quale ci sono diverse schegge Jazzcore precedentemente inserite nel mitico "Torture Garden", alternate a composizioni di musica classica riviste in veste Jazzgrind con composizioni lunghe e articolate parecchio interessanti.
Un lavoro quindi per buona parte già edito e quindi non molto interessante che ha un effetto straniante per certi punti: il senso di fare un’operazione del genere? Mah, chi lo sa, fatto sta che questo è uno dei dischi minori della band per colpa di questa infelice scelta che ovviamente non giustifica la valutazione estremamente elevata nel mercato collezionistico.
La raccolta "Black Box" della quale dopo vi parleremo è un’alternativa quindi decisamente più interessante oltre che economica, che in parte ripropone la stessa altalena stilistica seppur su lidi più fangosi e oscuri.
Per il box set comprensivo di tutta la discografia dei Naked City vi cito come interessante bonus un rifacimento con un personaggio molto attivo nella scena Alternative: ovvero quel Mike Patton che collaborò con questo svalvolato combo nella breve reunion avvenuta nel 2003, oltre a collaborare in anni successivi in altri progetti dello stesso Zorn.




Dopo un’intenso 1992 si passa all’altrettanto intensa annata successiva, almeno per i Naked City.
Per il sestetto nippo-americano l’annata comincia con quel monolite dal nome di "Leng Tch’e" dalla durata di trentadue minuti.
I nostri affrontano un concept decisamente macabro e raccapricciante: dall’omonima tortura/esecuzione cinese (morte dai mille tagli) il gruppo mette come copertina e all’interno dello stesso booklet foto riguardanti la terribile tortura Lingchi ed il concept stesso della suite è basato su degli appunti dello scrittore/filosofo francese Georges Bataille. All’interno dello stesso booklet, al riguardo della foto in copertina è riportato dallo stesso filosofo che “…Ciò che ho visto all’improvviso, e ciò che mi ha imprigionato nell’angoscia – ma che allo stesso tempo mi ha liberato da esso – è stata l’identità di questi contrari perfetti, l’estasi divina e il suo opposto, l’orrore estremo. …”.
Ma in cosa consiste questa fantomatica Lingchi? Beh è presto detto: “la morte dai mille tagli” è una brutale e umiliante tortura in pubblica piazza che finiva con la morte del condannato, tenuto artificiosamente in vita con l’oppio che consisteva nell’immobilizzarlo ad un palo e da lì prima si effettuavano tagli su arti e torace, per poi passare alla loro amputazione e alla fine avveniva l’esecuzione vera e propria con la decapitazione o con una pugnalata al cuore. Zorn e soci si saranno parecchio arrovellati le meningi per tramutare in musica cotanta brutalità. Difatti come si può trasportare in musica una cosa del genere? Una domanda decisamente complessa e macabra che ognuno di noi può rispondere in una maniera diversa: i Naked City scelsero una strada decisamente irta e difficile, cambiando pelle e andando a comporre una singola song dai connotati Drone Doom Metal, decisamente diversi e distanti da quanto fatto prima, seppur in piccola parte vada a ripescare certe idee Noise della Jam BDSM composta l’anno precedente.
Ecco quindi che "Leng Tch’e" è una composizione di chiara impronta Sabbathiana, seppur rivista su lidi ben più pesanti, cupi e lenti, in quello che a conti fatti è un abisso catatonico.
Nonostante il genere non sia esattamente famoso per questo, qui il batterista Joey Baron dà una prova esuberante e fantasiosa, alternando sapientemente rullate e ritmiche pigre, intelaiando il tutto con alcune brucianti ripartenze improvvise, tutto ciò con gran gusto e soprattutto che ben si amalgama in questo contesto infernale.
Ma ciò che è protagonista assoluto di questi trenta e passa minuti di musica è senz’ombra di dubbio il guitarwork dell’ottimo Bill Frisell nel quale si incontrano/scontrano l’oscurità dei primi Black Sabbbath, la lentezza ipnotica e pachidermica dei primi seminali Earth oltre alla pesantezza ed al marciume dei Morbid Angel con una serie di riff dall’andatura mantrica.
Il sax impazzito di Zorn, insieme alle urla isteriche e disperate, alternate ai rantoli rabbiosi del terrorista sonoro giapponese creano un’atmosfera surreale e soffocante.
Vista la difficile reperibilità di questo lavoro nel 1997 uscì la raccolta "Black Box", tra l’altro recentemente ristampata per festeggiare in maniera degna il sua ventesimo anniversario.
Raccolta che in un sol colpo ci dà in pasto "Torture Garden" e "Leng Tch’e" e già da questo possiamo benissimo capire la genialità dell’operazione nella quale abbiamo i due lati della stessa medaglia: da una parte quarantadue canzoni in poco più di venticinque minuti di velocità folli e cambi repentini, dall’altra abbiamo una composizione di trentadue minuti minimale, lenta, ipnotica e catacombale… due modi opposti ma ugualmente estremi di concepire il Metal sperimentale.
In più se ci aggiungiamo la bella cover alternativa, la rimasterizzazione del suono che dà alle quarantatré canzoni quel quid in più e l’estrema difficoltà nel recuperare i lavori originali, specialmente a prezzi umani, capiamo benissimo come questa fantastica raccolta possa benissimo rappresentare un fantastico punto di partenza per innamorarsi di questi Jazz/Grinders in questa folle e delirante altalena stilistica.




Sempre il 1993, vede la pubblicazione di un altro esperimento sonoro: "Absynthe". L’assenzio, liquore molto apprezzato da poeti francesi come Boudelaire e Verlaine che ispirano questo lavoro Ambient. Un altro lato di questo vero e proprio laboratorio musicale, un gran coraggio artistico ed un tema particolare per quello che aimè è forse il lavoro meno interessante di questo combo.
Il sound è ovviamente minimale, non ci sono i gorgheggi del terrorista sonoro giapponese, manca completamente quell’effetto sorpresa assolutamente spiazzante dei predecessori, con suoni generalmente puliti mescolati ad accenni noise disturbanti, nei quali i sintetizzatori e l’effettistica la fanno da padrone. Mancanza di una forma canzone vera e propria, alcune destrutturazioni sonori e atmosfere dilatate. Un lavoro che per sua stessa natura o si ama o si odia, rappresentando di fatto “un’unicum” della loro discografia visto che non affronteranno mai più l’Ambient: personalmente pur ritenendolo interessante, soprattutto per l’idea che ha ispirato questo album, ritengo che sia la cosa peggiore fatta dai Naked City e con grande rammarico sottolineo come gli elementi caratteristici del loro sound folle e schizzato non siano stati usati come veicolo per fare una proposta personale della musica Ambient.
Un’occasione mancata insomma: ascoltatelo e fateci sapere invece cosa ne pensate cari lettori, dopo tutto un ascolto non lo si nega a nessuno o no?




E sempre nel ’93 (ve lo avevo detto no che fu un'annata molto intensa per la band, no?) esce pure "Radio" che rappresenta un gradito ritorno alle origini alle sonorità tanto care dell’esordio che non toglie e non aggiunge nulla ma rialza il sestetto dopo il precedente lavoro poco riuscito: sappiamo bene che una delle regole “non scritte” nel mondo musicale è quella di fare dei ritorni alle origini dopo un periodo sperimentale o di svolte musicali decisive.
Si torna quindi allo stile e alle sonorità del primo album, con quel guazzabuglio sonoro fatto di Pop, Surf Rock, Free Jazz e Grindcore, con dei piccoli inserti Ambient giusto per non farci mancare nulla, che tanta gioia e fortuna diedero alla band.
Le atmosfere allegre e spensierate la fanno da padrone, senza però farsi mancare le visioni noir che calzano a pennello in certi film polizieschi e quell’immaginario perversamente affascinante che l’universo sadomaso porta con sé.
Quindi tornano le riletture in salsa Free Jazz e Fusion di alcuni classici Jazz d’annata o delle soundtrack del cinema d’autore che questa sfavillante combriccola apprezza molto: il risultato è frizzante ed esuberante come il gruppo ci ha abituato nei suoi momenti migliori, che a dire il vero sono tanti.
Non si raggiungeranno le vette di un "Torture Garden" o dell’esordio omonimo, ma forse era impossibile, non solo per questione qualitativa ma pure per un effetto sorpresa che, seppur presente, ora non è più così shockante e destabilizzante.
Per il resto questo "Radio" chiude degnamente una carriera particolarmente originale e coraggiosa, dopo un paio di episodi non particolarmente riusciti.
Alla fine non ci rimane altro che sperare in una eventuale ristampa di questo album da parte dell’etichetta personale dello stezzo Zorn (la Tzadik Records), per non doverlo pagare a cifre esorbitanti visto ormai com’è diventato raro…




Chiudiamo questa irriverente carriera con un live postumo, uscito nel 2002 ovvero "Live Vol. 1 Knitting Factory 1989" e lasciatemi aggiungere che è un lavoro parecchio interessante, non tra i migliori certamente, ma decisamente riuscito per i motivi che tra poco vi dirò.
Zorn e soci ci fanno un regalo bellissimo: un live del primissimo periodi di attività della band, con quasi tutte le canzoni tratte dal primo album.
Questo fatto però non deve trarci in inganno e seppur siano in tutta sostanza le stesse canzoni dell’ottimo debutto, c’è da sottolineare che l’assenza dell’urlatore nipponico e la bellissima abitudine tutta Free Jazz di cambiare drasticamente le evoluzioni strumentali con una serie di improvvisazioni ardite, danno a queste songs un sapore decisamente diverso e dal sapore smaccatamente più Jazz Rock/Fusion, con tutta l’eleganza e la raffinatezza che il Jazz porta con sé.
In tutto questo succulento ben di Dio strumentale assolutamente impeccabile abbiamo pure lo spazio per tre notevoli inediti: il Jazz/Grind frenetico di "Skate Key" con le sue brucianti accelerazioni ed il sax impazzito, la seducente e sinuosa reinterpretazioni di un classico di Ennio Morricone con l’ottima versione presente di "Erotico" in salsa Rock oriented ed infine la sfavillante reinterpretazione di "The Way I Feel", nella quale possiamo godere del lato più Fusion del gruppo.
Da queste righe si può intuire come questo live sia una chicca inattesa da parte di una delle band più folli, originali e stravaganti che si siano potute vedere nel Grindcore come nel Jazz stesso.
Mentre nel 2017 per vie traverse viene pubblicato su cd il bootleg "Live In Quebec '88" che oltre a rimarcare la scia tracciata dal precedente live album, manco a farlo apposta è un altro feticcio per i collezionisti e gli amanti del gruppo, seppur la qualità audio non sia paragonabile a quella di "Live Vol. 1 Knitting Factory 1989".



Non mi rimane altro da fare che salutarvi al prossimo lavoro ed in ultimo, ma non per importanza, esortarvi nel vostro piccolo a supportare la musica che più vi piace.


Link utili:
https://www.discogs.com/artist/205814-Naked-City
https://www.tzadik.com/
Articolo a cura di Seba Dall

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