“Otto nuovi brani incentrati sul tema del destino e su come si sviluppi senza preavviso e come le scelte intraprese possano lentamente spogliarci di ciò che pensavamo di essere”.
Sono queste le parole utilizzate da
Kscope per introdurre il nuovo disco del
Gazpacho, che esce a cinque anni di distanza dall’ottimo
“Fireworker”, un album che ho ascoltato molto durante “il lungo inverno” della pandemia.
Le influenze sono sempre riconoscibili (Marillion e Radiohead
in primis), con quella personalità tutta nordica e timbriche tastieristiche particolarmente azzeccate come nel caso di
“Starling”. La successiva
“We Are Strangers” è energica, spigolosa ed emotiva alla maniera di No-Man, prima di
“Sky King”, sospesa tra rock muscolare e atmosfere cinematografiche.
“Ceres” è breve ed essenziale, curata nell’arrangiamento atipico che lascia alla splendida voce di
Jan Henrik Ohme lo spazio necessario per esprimersi al meglio. Se
“Gingerbread Men” si destreggia tra Pink Floyd e Steven Wilson, la titletrack sorprende per i riferimenti ai conterranei (e folli) Major Parkinson. Il finale è lasciato a due lunghe ed epiche cavalcate dai toni wagneriani intitolate
“Immerwahr” e
“Unrisen”.
Il disco giusto al momento giusto.
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