Paradise Lost (Gregor Mackintosh, guitars)

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Gli alfieri del gothic metal sono tornati più in forma che mai, con un album sorprendente per intensità, maturità e coerenza col passato. Spazzati definitivamente via i dubbi riguardo al loro songwriting più recente, i Paradise Lost ci presentano il loro undicesimo album “In Requiem”, con le parole del loquace chitarrista, compositore e fondatore, Gregor Mackintosh.

Il vostro nuovo album “In Requiem”, fin dal primo ascolto, sembra tendere verso un feeling e un’atmosfera più oscuri e comunque sempre più legate ai vostri esordi. Che ne pensi?
“L’idea che avevamo in mente, quando ci siamo apprestati a scrivere i nuovi pezzi, era quella di ottenere un prodotto che suonasse più live e meno elaborato che in passato, ma allo stesso tempo con un songwriting più interessante e leggermente più aggressivo. Questa volta abbiamo voluto basarci maggiormente sui riff di chitarra, ma non è stato un ritorno premeditato alle nostre origini, semplicemente desideravamo suonare musica che ci stimolasse di nuovo e fosse più ‘fresca’. Non penso che avremmo potuto comporre un album del genere ai tempi di ‘Draconian Times’, avevamo bisogno di tempo per interessarci di nuovo a questo stile.”

Sinceramente, ascoltando questo disco, ho pensato che avrebbe potuto uscire all’epoca di “Icon” e nessuno se ne sarebbe lamentato…
“Probabilmente. Penso che le nostre capacità compositive e la nostra tecnica siano molto migliori oggi, rispetto ad allora, ci siamo senza dubbio evoluti parecchio. Tuttavia, il paragone che fai è corretto e anzi, potremmo trovare dei punti in comune perfino con ‘Gothic’, a causa dell’atmosfera di alcuni brani, che possono in effetti richiamare quella dei nostri primi dischi.”

Infatti, voi stessi avete dichiarato che certi brani non sono poi tanto distanti dallo stile dei vostri demo!
“Sì, è vero, ci sono alcune parti in cui effettivamente si può riconoscere lo stile di quella band: voglio dire, secondo me non è impossibile riconoscere, nel gruppo che ha registrato ‘In Requiem’, quello che aveva prodotto i demo. Penso che questo sia dovuto al nostro modo di suonare, anche se volessimo cambiare radicalmente il nostro sound, non credo che ci riusciremmo. Possiamo avere un approccio diverso, di volta in volta, ma per esempio io non potrei cambiare il modo in cui suono la chitarra, e questo vale anche per gli altri membri della band.”

Tutti sappiamo che avete vissuto una fase, musicalmente parlando, particolare, con album come ‘One Second’ e ‘Host’, che fecero in qualche modo sentire “traditi” i vostri fans della prima ora. Ora che avete ripreso un certo stile che molti ritenevano perduto, cosa avete mantenuto di quei dischi sperimentali?
“Credo che tutto ciò che abbiamo prodotto, nel corso degli anni, ci abbia insegnato qualcosa. Tutti, più o meno, imparano dai propri errori, anche se personalmente non considero quel periodo un errore per noi e non ho alcun rimpianto in merito. Non penso, infatti, che avremmo mai potuto incidere un album come ‘In Requiem’, senza essere prima passati da ‘One Second’ e ‘Host’. Quando avevamo realizzato ‘Icon’ e ‘Draconian Times’, ovvero i dischi immediatamente precedenti, eravamo in un buon periodo, che però è stato molto stressante per noi. Abbiamo fatto molti tour all’epoca e forse, ad un certo punto, ci siamo stancati di suonare quel tipo di canzoni. Avevamo bisogno di fare qualcosa di diverso, in poche parole. Prima dicevi che molti fans si erano sentiti traditi dal nostro cambiamento, ma il fatto è che non scriviamo musica per i fans, lo facciamo per noi stessi prima di tutto e poi vediamo se piace o meno alla gente. Sono consapevole che abbiamo perso dei fans, ma sono dell’idea che non possiamo pensare a queste cose mentre componiamo la nostra musica, altrimenti rischieremmo di dare troppa importanza a quanto un brano è commerciale o meno. Sarebbe pericoloso, perché finirebbe per danneggiare la nostra sincerità di musicisti.”

Personalmente, ho sempre ritenuto tutti i vostri dischi almeno interessanti e di buona qualità, inclusi i due sopra citati…
“Non posso che essere d’accordo! Penso che con quegli album abbiamo sì perso qualche fan, ma molti sono rimasti con noi e sicuramente ne abbiamo guadagnati di nuovi. Mi piace pensare che un disco come ‘Host’, ad esempio, sia molto profondo: in esso abbiamo dato voce agli stessi stati d’animo e sentimenti di cui abbiamo sempre parlato, in tutti i nostri album, ma lo abbiamo fatto in maniera più sottile, cercando di vedere le stesse cose da un punto di vista diverso e quindi, di creare qualcosa di più interessante per noi. Non possiamo certo fare sempre lo stesso disco all’infinito, sarebbe frustrante.”

Tornando a “In Requiem”, mi sono fatto l’idea che, per quanto possa apparire un lavoro molto dark e permeato da atmosfere negative, abbia in effetti degli elementi decisamente più “solari”, che però risaltano solo ascoltandolo con attenzione. Si è trattato di una vostra scelta consapevole, oppure di un processo spontaneo?
“Sai, è innegabile che noi abbiamo sempre parlato del lato più oscuro della vita e abbiamo sempre suonato un tipo di musica decisamente ‘dark’. Però abbiamo anche sempre voluto evitare di dare alla nostra musica un aspetto netto e definito, ci può sempre essere qualcosa di diverso e magari impercettibile al primo ascolto. Voglio dire, sarebbe fin troppo facile creare musica solo ed esclusivamente ‘malvagia’… Penso che riusciremmo a realizzare un disco black metal domani stesso e renderlo anche piuttosto convincente! Credo che sia invece molto più difficile comporre canzoni agrodolci: prendi ad esempio l’ultimo brano dell’album, che inizia in maniera soft ed atmosferica, per poi crescere gradualmente d’intensità. Nel decidere la track list di un disco come questo, abbiamo scelto di disporre le canzoni in modo da bilanciare le cose, per far sì che chi le ascolta possa avere un’esperienza il più possibile varia. Il motivo è da ricercarsi nella nostra volontà di creare un certo tipo di dinamiche e soprattutto di non limitarci a comporre su un solo livello, ma di esplorarne diversi. Una sorta di viaggio sull’ottovolante, per darti un’idea!”

Ho molto apprezzato, fra le altre, “Ash & Debris”. Ce ne vuoi parlare brevemente?
“Certo, questa è una di quelle canzoni un po’ particolari, idealmente divisa in due parti: la prima è aggressiva e veloce, mentre la seconda è in un certo senso più epica. E’ un ottimo brano per dimostrare ciò di cui parlavamo prima, cioè il nostro desiderio di sperimentare strutture diverse per ogni canzone, cosa che non avevamo sempre fatto nell’ultimo paio di dischi precedenti a questo. Al momento di scrivere il nuovo materiale, ci siamo resi conto di averne avuto abbastanza di certi tipi di brani, abbastanza simili fra loro, e volevamo quindi provare a comporre qualcosa di un po’ meno commerciale e più, per così dire, enigmatico. Volevamo, insomma, realizzare un lavoro forse meno accessibile dei precedenti, ma che, una volta ascoltato più a fondo, rivelasse elementi nuovi e più interessanti.”

Voi siete considerati, quasi all’unanimità, come i creatori del gothic metal. Tanto che il vostro stesso vocalist Nick Holmes, durante la vostra esibizione al Gods Of Metal 2003 a Milano, ci scherzò sopra dicendo al pubblico: “do you like gothic metal? We fuckin’ invented it!” [qui Greg si fa una sana risata, ricordando l’episodio! Nda]. Ciò che vorrei chiederti ora è se c’è stato un momento particolare in cui vi siete resi conto di avere dato vita ad un vero e proprio genere musicale…
“In questo senso, durante la nostra carriera ci sono stati due momenti chiave, peraltro abbastanza distanti fra loro. Il primo risale a quando avevamo appena finito di registrare il nostro secondo lavoro, ‘Gothic’, appunto: avevamo portato il master alla Rough Trade in Olanda, che all’epoca era il più importante distributore discografico nel nostro genere, e loro ci dissero che non gli era piaciuto. Ci avevano detto che era uno schifo perché non sapevano in che modo etichettarlo, non era death metal, non era doom metal, insomma, non sapevano che razza di definizione affibbiargli! Noi, in maniera molto spontanea, rispondemmo di definirlo ‘gothic metal’, se volevano. All’uscita del disco nei negozi, apparve dunque uno sticker in copertina con la perentoria scritta ‘gothic metal’: potrei sbagliarmi, ma sinceramente penso che quella sia stata la prima volta in cui un album è stato definito in quella maniera. La cosa buffa è che era stata una cosa assolutamente innocente, non avevamo certo la pretesa di creare chissà quale nuova scena musicale! Avevamo solo cercato di trovare una definizione che soddisfacesse quelli della Rough Trade e solo perché ce l’avevano chiesto loro… In ogni caso, credo che il momento più importante sia stato quello della pubblicazione di ‘Icon’: a quel punto, avevamo ormai stabilito quello che si può considerare il nostro stile classico e che è stato probabilmente usato come fonte di ispirazione da molte nuove bands dell’epoca. Oggi le cose sono decisamente cambiate, il cosiddetto gothic metal è un genere enorme e include numerosi gruppi che, in fondo, non hanno niente a che fare con quanto possiamo avere mai avuto in mente noi, quando abbiamo iniziato. Dall’altro lato, abbiamo formazioni di grande successo, come gli Him o i Nightwish, che ammettono di essere stati influenzati da noi in passato. Penso quindi che i Paradise Lost abbiano rappresentato un’ispirazione per tanti gruppi, ma oggi la definizione ‘gothic’ è diventata molto più ampia di prima: ci sono, ad esempio, diversi artisti che parlano di ideali romantici e cose del genere, ma noi non abbiamo mai avuto nulla a che fare con certi argomenti, abbiamo sempre affrontato tematiche decisamente più oscure e scomode.”

Manca ormai poco al vostro ventesimo anniversario, una tappa importantissima per qualunque artista. Come vi sentite?
“Devo ammettere che tutto sembra essere successo così velocemente, che mi sembra di aver pubblicato ‘Gothic’ solo un paio di anni fa, quando invece ne sono passati sedici! Sicuramente celebreremo l’anniversario con qualcosa di speciale, anche se non sappiamo ancora esattamente come… Una cosa è certa: è andato tutto dannatamente in fretta! Se ci penso, quasi mi spavento! Comunque, ciò che faremo in futuro sarà sempre continuare a creare musica, finché avremo idee che riterremo valide. Fintanto che riusciremo a far interessare la gente alla nostra musica, a scoprire nuovi percorsi musicali, continueremo. Altrimenti, non avrebbe senso… Un po’ come quando ci siamo trovati a comporre ‘One Second’: eravamo ad un punto in cui ci saremmo sciolti, se non avessimo creato qualcosa di diverso, e il fatto di esserci riusciti ci ha permesso di essere qui ancora oggi. Anche se la casa discografica sarebbe stata felice di ritrovarsi con l’ennesimo ‘Draconian Times’ fra le mani, noi non avremmo davvero potuto farlo; avrebbe venduto un sacco di copie, ne sono certo, ma eravamo stanchi di quelle cose, non vedevamo il motivo di continuare per quella strada. Il bello è che, quando ‘One Second’ è uscito, ci hanno dato dei venduti, ma in realtà per noi è stato l’esatto contrario!”

Per finire, la classica domanda sul vostro prossimo tour…
“Il tour inizierà in settembre e per un mese circa, comprenderà il territorio europeo. Siamo certi di venire a suonare in Italia, in almeno due o tre città diverse. In ottobre, invece, andremo negli Stati Uniti insieme ai Nightwish. Magari potrà sembrare un accoppiamento un po’ strano, ma per noi può essere un’ottima opportunità per farci conoscere meglio da quelle parti, visto che lì i Nighwish hanno un nutrito seguito. Inoltre, abbiamo già suonato insieme a loro e sono delle ottime persone, cosa che per me è decisamente più importante rispetto alla musica che suonano. Sai, quando devi vivere fianco a fianco con i ragazzi di un altro gruppo per settimane intere, è importantissimo avere un buon rapporto reciproco, altrimenti tutto rischia di andare a rotoli! Andare in tour insieme a gente con cui si va d’accordo, invece, da una spinta positiva anche ai nostri concerti.”

Intervista a cura di Michele 'Freeagle' Marando

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