Labyrinth (Andrea Cantarelli, guitars)

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Gruppo:Labyrinth

Labyrinth: un nome e una garanzia anche oggi, con i giorni di “Return to heaven denied” decisamente tramontati e la band nostrana alle prese con la difficile lotta per un nuovo posto al sole, all’interno di un panorama metal sempre più affollato e sempre meno entusiasmante. “6 days to nowhere” è il titolo della nuova fatica di Roberto Tiranti e soci, un disco come sempre di ottima fattura, totalmente in linea con quanto saremmo leciti aspettarci da loro. Ne abbiamo parlato con uno dei membri storici di questo act, il chitarrista Andrea Cantarelli, in quella che si è rivelata una chiacchierata piacevolissima e molto poco formale: fossero tutti così i musicisti…

Partiamo subito a parlare di “6 days to nowhere”: ti faccio i complimenti perché è veramente un bel disco! D’altronde la cosa non mi sorprende: fatta eccezione per “Sons of thunder”, che non mi aveva soddisfatto in pieno, ho amato moltissimo tutti i vostri lavori… tornando a quest’ultimo, credo che si ponga in perfetta continuità con i due precedenti, ma che sia nello stesso tempo più aperto, più semplice da ascoltare… che ne pensi?

Ti ringrazio dei complimenti! Normalmente le opinioni del musicista sono discordanti da quelle del giornalista, invece in questo caso sono d’accordo con te su tutta la linea! L’idea era proprio quella di semplificare il più possibile i pezzi, anche se non sempre ci riusciamo perché abbiamo un certo background tecnico e magari le cose che possono sembrare semplici a noi, in realtà risultato complesse per l’ascoltatore medio. C’è stata sicuramente la volontà di creare una continuità con “Labyrinth” e “Freeman”, però nello stesso tempo abbiamo anche voluto aiutare l’ascoltatore, rendendogli il lavoro meno complesso, in modo tale che l’ascolto fosse leggero, senza sforzo, piacevole. Questo per lo meno a livello di primo impatto, perché poi se uno vuole, in un secondo momento, può apprezzarne tutte le varie sfaccettature…
Sono d’accordo con te anche su “Sons of thunder”: noi lo definiamo “un mezzo aborto”, un disco che era nato molto bene, a partire da ottime idee, che si sono però sfaldate poco a poco durante il processo di lavorazione. Un vero peccato, perché davvero c’era un ottimo potenziale in quel disco, ma non siamo stati capaci di esprimerlo a pieno.

Sembra che in questo lavoro convivano due anime: una molto vicina all’AOR, esemplificata da pezzi come “There is a way” o “Mother earth”, e un’altra decisamente più estrema e tirata, come ad esempio in “Lost”…

Credo che, analizzando il passato e il presente della nostra carriera, i due aspetti abbiano sempre convissuto tra loro. Qualunque disco nostro, anche se in proporzioni diverse, unisce elementi molto aggressivi, a cose più Aor o pop, espresse anche con tastiere, ritmi elettronici, ecc.
Con gli anni l’idea di fondo di una fusione è rimasta, ma abbiamo forse estremizzato la parte più cattiva… se guardi a canzoni come “Deserter”, ti rendi anche conto che in essa le parti cattive, quasi prese in prestito dagli Slayer, convivevano con una strofa molto più soft, che avrebbe tranquillamente potuto essere accostata ad una band non metal. La cosa si è ripetuta ancora con questo disco, anche se è vero che ci sono canzoni come “There is a way”, che sono totalmente spostate sul lato melodico: tra l’altro, per un disco che è stato vissuto in un’atmosfera particolarmente melanconica, questo rappresenta un pezzo positivo, forse un po’ ostico per i fan, ma comunque dal grande potenziale.

“Mother Earth” può diventare la nuova “Moonlight”, secondo te?

Sinceramente è un bell’augurio, dato che “Moonlight” è il pezzo che più ci rappresenta, quello che tutt’ora i fan amano di più ascoltare e cantare. Per quanto adesso tutti noi crediamo di aver scritto pezzi decisamente migliori di quello, è innegabile che avesse al suo interno caratteristiche ora difficili da replicare. Vedi, contrariamente ad altri musicisti, non ho mai pensato che l’ultimo lavoro debba per forza di cose essere il tuo disco migliore. E’ più facile che le cose più belle che un gruppo componga arrivino ad inizio carriera, quando la scrittura è più spontanea, e c’è più tempo di lavorare alle idee in sala prove. Col tempo poi, è normale che si venga condizionati dai tempi di produzione e dalle aspettative del pubblico…
Per tornare alla tua domanda, sinceramente non lo so, non posso prevedere nulla, però se accadesse sarebbe un piacere enorme, e in caso contrario… beh, ovviamente un dispiacere! Guarda, spero sinceramente che accada, vorrei vedere da parte del pubblico la stessa passione anche per i nostri pezzi più nuovi…

Ho notato che avete fatto parecchio uso delle chitarre acustiche, una soluzione che ho particolarmente apprezzato…

Personalmente, credo che la chitarra acustica stia al chitarrista come il piano al pianista. E’ uno strumento in grado di trasmettere bellissime sensazioni, sia che venga utilizzata come semplice rinforzo o da sola come intro (“mother earth"). Ci è sempre piaiucuto utilizzarla nelle nostre composizioni, purtroppo però in sala prove le idee vengono fuori molto spontaneamente, e non sempre prevedono che l’acustica ci stia bene. Stavolta è accaduto diversamente, le cose che abbiamo composto prevedevano maggiormente questa possibilità.
Devi inoltre considerare che io ho 33 anni, per cui sono cresciuto con gruppi come i Metallica, che sono sempre stati famigliari con un certo tipo di atmosfere: non è che copiamo però è normale che certe influenze si riflettano in ciò che facciamo. Sono anche un fan di “Promised land” dei Queensryche, che secondo me è uno dei dischi più belli della storia (come mi trovi d’accordo caro Andrea… e infatti qui è partita una digressione piuttosto lunga, che non mi è sembrato il caso di riportare in questa sede NDA)…

Nel disco compare anche una bella cover di “Come together”: al di là del risultato positivo, non era forse il caso, parlando di Beatles, di ripiegare su qualcosa di meno ovvio? Quella l’hanno fatta un po’ tutti…

Di solito non registriamo mai più di nove o dieci pezzi per disco. Del resto è una cosa che quando ero adolescente era la perfetta normalità, data la scarsa durata del vinile. Accade però che ogni gruppo si diverta in sala prove e se ne venga fuori con cose un po’ strambe, che esulano un po’ dal contesto del disco. Nel caso di “Come together”, ti posso dire che non era affatto pianificata, è uscita così, per gioco. Francamente non mi ricordo nemmeno più il motivo: forse qualcuno ha proposto un riff che ci assomigliava parecchio e siamo partiti a suonarla. Ci abbiamo pensato anche noi al fatto che è un po’ abusata, però poi l’abbiamo registrata, ci è piaciuta, e l’abbiamo tenuta. Del resto avevamo solo voglia di divertirci, nulla di più!

Che cosa mi dici invece della nuova versione di “Piece of time”? Considerando che all’epoca di “Sons of thunder” avevate ripreso “In the shade”, mi stavo chiedendo se deciderete mai di registrare il vostro primo disco per intero…

Non è che negli ultimi anni ci hai spiato di nascosto? Questo è esattamente quello che ci diciamo da un sacco di tempo! E’ veramente un bel po’ che accarezziamo questa idea, anche perché la registrazione originale di “No limits” è introvabile, non ce l’abbiamo più neanche noi! In realtà quest’anno avevamo anche iniziato a farlo, ma poi, per i soliti motivi di tempo, non ce l’abbiamo fatta. “Piece of time” era l’unico pezzo ad essere quasi pronto, così abbiamo deciso di finirla e di metterla sul disco. Chissà che magari in futuro non riusciremo a registrare anche le altre…
C’è comunque un altro motivo alla base di questa decisione: “Piece of time” è un brano che è diventato un po’ il nostro porta fortuna, però solamente due membri del gruppo su cinque avevano avuto la fortuna di registrarla in studio. Di conseguenza, questa nuova versione è stata un’occasione perché anche loro la facessero propria. Inoltre quest’anno abbiamo voluto mettere più pezzi all’interno del disco: sai, ormai il costo di un cd è decisamente alto, per cui occorre dare qualcosa di più ai fan. Personalmente ho apprezzato molto l’idea dei Red Hot Chili Peppers di realizzare un doppio album: è un qualcosa che avremmo voluto fare anche noi, ma che non siamo riusciti a fare per motivi di tempo.

Bisogna però cercare di non andare a discapito della qualità: personalmente credo che “Stadium Arcadium” abbia proprio questo difetto…

Naturalmente! Questo è importantissimo, mi dà molto fastidio vedere che su certi dischi ci sono dei pezzi che sono semplicemente dei riempitivi. Se decidi di uscire con un certo tipo di prodotto sei responsabile davanti agli ascoltatori. Sinceramente spero che, anche se poi il nostro disco non piacerà, almeno venga riconosciuto che ha un valore, che dietro c’è stato un lavoro… beh, certo, se poi piace anche, è molto meglio!

Prima hai accennato al fatto che il disco è nato in un clima un po’ melanconico: che significato ha per voi un titolo come “6 Days to nowhere”?

E’ un titolo che rispecchia il nostro stato d’animo nei confronti della nostra band: siamo soddisfatti per tutto quello che ci è successo fino ad oggi, per tutti i traguardi che abbiamo raggiunto, per tutte le persone che abbiamo incontrato. A volte però ci diciamo che, nonostante siamo già giunti al sesto disco, finora non è poi successo un granché, siamo ancora in una sorta di limbo tra il professionismo vero e proprio e il gruppo di culto, con un seguito di persone affezionato ma limitato. Rimanere inchiodati lì ci dà quell’idea del “Nowhere” che è espresso nel titolo, dove “6 days” è ovviamente una metafora per sei dischi. È una cosa peraltro condivisa anche da altri: molti giornalisti dall’estero ci dicono sempre questo, che siamo un po’ come una promessa mancata… e la stessa cosa ci viene ripetuta anche da tutte le etichette con cui ci è capitato di lavorare…è evidente che tutto questo ci porta a vivere in maniera malinconica la nostra carriera.
Non fraintendermi, non siamo del tutto insoddisfatti e non voglio nemmeno che sembri che ce la tiriamo! E’ solo che, personalmente, vorrei davvero arrivare a poter vivere totalmente di musica, e questa situazione di mezzo è così frustrante che a volta mi trovo quasi a sperare, per assurdo, che il prossimo disco non piaccia proprio a nessuno, così almeno avremmo un buon pretesto per smettere e piantare lì tutto! Sai, a volte è davvero difficile dover conciliare la nostra normale vita lavorativa con quello che comunque rimane un grosso impegno.
Sai cos’è che ci dà fastidio anche? Di non essere mai riusciti, neanche quando facevamo qualcosa di grosso, ad essere riconosciuti in maniera adeguata. Ad esempio, nessuno sa che siamo stati il primo gruppo rock a suonare in Cina dopo i fatti dell’89…

Già, hanno parlato solo del concerto dei Rolling Stones…

È vero, però noi eravamo stati lì prima! Un gruppo metal in Cina! Eppure non se n’è accorto nessuno…

A proposito di questo: quando uscì “Return to heaven denied”, che oltretutto fu pubblicato da Metal Blade, foste acclamati come la nuova stella nascente del power metal europeo. Ricordo che quando vi vidi al Gods del 1998, col disco ancora da pubblicare, si respirava già il clima dell’evento! Poi uscì “Sons of thunder”, fu una mezza delusione, e si smise di parlare di voi nei toni entusiastici di prima. Vuoi sapere che cosa penso? Io credo che “Moonlight”, il brano che ha dato il via al vostro successo, sia stata anche la vostra personale condanna: siete stati etichettati come un gruppo power metal, ma in pochi si sono accorti che “Return to heaven denied” non era affatto un disco power! Così tutto ciò che è venuto dopo, che pure era in perfetta continuità col vostro discorso, è stato percepito come un tradimento…

Ti ringrazierò a vita per questo, davvero! Voglio che tu lo scriva pubblicamente, perché li meriti tutti questi complimenti (Graz, non l’ho pagato, lo giuro! NDA) Te lo ripeto ancora una volta: non è che ci hai spiati? Perché parli proprio come se fossi il sesto membro del gruppo! E’ proprio vero quello che hai detto, che la nostra più grande sfortuna è stata anche la nostra sfortuna! In quel periodo fece clamore la parte power metal di quel disco, mettendo in secondo piano altri pezzi come “State of grace” o “Night of dreams”, che pure ne erano parte integrante. In seguito la nostra evoluzione si è mossa in una direzione meno power per cui, al di là della delusione delle aspettative con “Sons of thunder”, chi era rimasto attaccato a brani come “Moonlight”o “Thunder” è rimasto per forza di cose deluso. D’altra parte, noi traiamo energia dal cambiamento e dall’evoluzione continua, per cui la persona che ci ascolta si ritrova sempre con un disco diverso dall’altro, se uno non ha una visione della musica a 360 gradi è dura. Ovviamente speriamo che la gente si riaffezioni al gruppo rimanendo fedele a quello che siamo sempre stati, che si affezioni a noi per tutte le nostre sfaccettature…

Che cosa mi dici del prossimo tour? Francamente, e dicevo la stessa cosa ad Enrico dei Domine qualche settimana fa, credo che una band come la vostra meriterebbe molto di più delle solite poche date in Italia e all’estero…

Ormai a parte i Maiden, che raggruppano 5 generazioni, non ci sono altri gruppi in grado di fare un grande successo di pubblico. Probabilmente stiamo pagando lo scotto del fatto che i 25 enni di ora siano disaffezionati al disco perché con internet è stato fatto un abuso della musica: se scarichi 1500 pezzi al giorno così, solo per il gusto di averli, come fai ad attaccarti ad una band in particolare? Ed è logico che poi non ti viene voglia di andare a vedere nessuno dal vivo. Ricordo che quand’ero ragazzino facevo i numeri per comprare i dischi, e la stessa cosa per i concerti!
Era tutto più romantico, si viveva tutto in prima persona, con grande intensità, questa generazione è invece disaffezionata: non sto emettendo nessun giudizio di condanna, semplicemente le cose stanno così…
Detto questo, adesso abbiamo un bel seguito in Italia, per cui credo che quest’anno riusciremo a fare anche una trentina di date nel nostro paese, anche perché molti locali, dopo avere saputo a quanto realmente ammonta il nostro cachet, si sono riavvicinati a noi.
Cercheremo di andare dovunque sarà possibile: purtroppo in Europa i costi sono alti e lì non abbiamo più un buon seguito, per lo meno non in tutti i paesi. Sicuramente riusciremo ad andare di nuovo in Giappone, e ci piacerebbe tantissimo replicare l’esperienza di qualche anno fa, poter andare di nuovo in Cina, Hong Kong, Taiwan. E poi dipende dal disco, il mercato è molto ricettivo, se appena c’è un disco che può andare bene viene sostenuto, per cui aspettiamo e vediamo… Certo che oggi c’è molta meno passione per cui i promoter preferiscono andare sul sicuro, organizzare eventi che sanno già saranno dei successi in partenza. Oggi si possono organizzare cose di ogni genere, ma poi si sa che si tira a campare con gli spettacoli di Fiorello, oppure con grandi manifestazioni come il Gods. Per tutto il resto è un rischio…

Ok, Andrea, è stato veramente un piacere, ti auguro tutta la fortuna possibile per i vostri impegni futuri, spero di vedervi presto sul palco!

E’ stato un piacere anche per me, Luca, ci vediamo presto!

Sentito? Andate a comprarvi “6 days to nowhere” e smettetela di vivere nel passato: i nuovi Labyrinth sono più vivi ed entusiasmanti che mai!

Intervista a cura di Luca Franceschini

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