(23 maggio 2014) Nine Inch Nails + Cold Cave @ O2 Arena, Londra - 23/05/2014

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Volete un esempio di cosa si può fare, quando si hanno miliardi a disposizione, idee precise su come utilizzarli, molto gusto e sia capacità che mezzi tecnologici? Andate ad un concerto dei Nine Inch Nails. Dopo le prove deludenti degli ultimi dischi non ero convinta di cosa aspettarmi, ma la Contessa Bathory mi rassicurava sul fatto che dal vivo la musica della band sia meglio che su disco. E’ vero. Persino Copy of A, Came Back Haunted, Find My Way e Disappointed dall’ultimo, orrendo, Hesitation Marks suonano completamente diverse. Trent Reznor tende a remixare i brani, accentuando le ritmiche in maniera martellante e pompando le chitarre, et voilà: uno smorto dub lounge da sottofondo per un aperitivo prende vita in un qualcosa di fragoroso e trascinante. Personalmente, però, considero la prima parte della sua carriera inarrivabile: Head Like A Hole, Sanctified rifatta con il riff di Sunspots, March of the Pigs, Piggy, Closer rifatta con il riff di The Only Time, The Becoming, Eraser, The Frail, The Wretched sono impressionanti nella loro cupezza selvaggia e si fa fatica ad immaginare che un essere umano possa sostenere due ore tutte in quel modo. Il malessere mentale che emana da quel periodo è talmente palpabile da inquietare. La Contessa Bathory, che a differenza mia ha visto i NIN in concerto ai tempi di The Fragile, quando tutto lo show era composto da violenza sonora e urla, mi dice che Reznor sembrava più un animale che una persona. Persino adesso che è visibilmente ingrassato, in forma e, con un matrimonio e un figlio, deve essere venuto a patti con i propri demoni, quando canta “I wanna f..k you like an animal” o “Black as your soul” lo fa in maniera convinta, se non realmente dolorosa. Anche nei momenti più pesanti la pulizia sonora è assoluta, la scelta di suoni e arrangiamenti perfetta e di classe. Merito del sempre presente Rob Sheridan, responsabile anche dei visual, parte integrante dello show, roba da restare in ammirato silenzio; l’ultima volta che ho visto qualcosa che, con uno stile diverso, era di pari altezza è stato al concerto di Steven Wilson per The Raven That Refused To Sing. Giochi di luce geometrici sullo sfondo, uniti a ologrammi che creavano una scenografia artificiale, nascondendo i musicisti dietro inesistenti pannelli dai quali trasparivano solo le ombre o dietro gabbie virtuali, ognuno diverso per canzone. Anche qui una pulizia visiva totale, unita alla disposizione geometrica dei musicisti. A chiudere Hurt, intensissima unione di musica, testo ed il video originale che da sempre la accompagna, a mettere il suo sigillo di inquietudine ad un concerto che ha vibrato di emozioni positive meno di quello di un gruppo black metal. Avrebbero fatto meglio a sciogliersi davvero nel 2009, dopo aver anche venduto tutta la propria strumentazione? Probabilmente sì. Lo spettacolo perfetto non toglie l’impressione “I am just a copy of a copy of a copy”, come canta Trent all’inizio. I pessimi dischi degli ultimi tempi sono una spia. Anche il pubblico di adesso è diverso: cellulare sempre alla mano, accende le lucine su Hurt come fosse una ballad. Ma che lui sia un genio, questo resta innegabile.

Setlist

The Downward Spiral / The New Flesh
Me, I'm Not
Copy of A
1,000,000
March of the Pigs
Piggy
The Frail
The Wretched
The Becoming
Gave Up
Sanctified
(with Sunspots riff)
Closer
(with The Only Time riff)
Find My Way
Disappointed
Came Back Haunted
The Great Destroyer
Eraser
Wish
The Hand That Feeds
Head Like a Hole

Encore:

The Day the World Went Away
Hurt



Ad aprire la serata con poco più di mezz’ora di musica i Cold Cave, il progetto solista dell’americano Wesley Eisold, al terzo disco, Sunflower in uscita quest’anno, e con dieci ep sulle spalle. Wesley ha la particolarità di essere nato senza la mano sinistra e, nonostante questo, compone la sua musica da solo, facendosi aiutare solo in sede live da turnisti, preferendo dedicarsi principalmente al cantato. Non lo conoscevo, mi è piaciuto moltissimo e non mancherò di recensirne l’album. Un mix di Depeche Mode, Ultravox, Fields of The Nephilim, Mission e parecchio i Cure, chiaro riferimento sia nel cantato che nelle movenze; una dark/new wave che arriva dritta dagli anni ’80, come se il tempo si fosse fermato. Perfetta per i club, ho ballato dal primo all’ultimo pezzo; fra i pezzi proposti: Underworld USA, A Little Death to Laugh, People are Poison, Love Comes Close.

Report a cura di Laura Archini

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