(25 giugno 2010) Gods of Metal 2010 - Day I - 25 Giugno

Info

Provincia:TO
Costo:40 €
Il Gods of Metal vicino casa? Una cosa difficile da credere per i metallers torinesi, gente abituata ad essere storicamente confinata alla “provincia dell’Impero Metallico” e ad osservare, ad esempio, la vicina Milano (e comuni limitrofi) con un pizzico di malcelata invidia. Ebbene, è successo anche questo e stavolta tocca al Parco Della Certosa Reale di Collegno ospitare il festival musicale estivo più “divino” dell’anno. Ok, è facile immaginare che saranno in molti ad obiettare che in questa edizione, forse caratterizzata da un bill effettivamente in tono vagamente “minore”, gli autentici Dei del Metallo sono venuti un po’ a mancare, ma è veramente difficile per chi vive da queste parti non considerare la novità come un vero e proprio evento cui non mancare. Ecco svelati, dunque, i motivi “contributori” che hanno condotto la falange piemontese di metal.it a decidere di frequentare massivamente e durevolmente l’ex area dell’Ospedale Psichiatrico di Collegno (in perfetta coerenza con tutti questi suoni “schizofrenici” e violenti) nonostante l’età e la temperatura da “forno crematorio” consigliassero un atteggiamento maggiormente cauto e misurato.
Alla fine la location si è rivelata adeguata (con quella zona alberata destinata a stand e relax, davvero indicata per brevi sessioni di necessario ristoro!) e anche l’organizzazione (con una precisione parossistica nel rispetto degli orari delle esibizioni) è risultata pressoché impeccabile (in conformità ad un afflusso di pubblico importante e tuttavia non straordinario), situazione cui mi piace pensare abbia concorso anche un pizzico di quella meticolosità sabauda spesso bistrattata.
Tre giornate stancanti, bollenti, divertenti e piuttosto godibili, e poi dopo tante critiche al voler troppo spesso privilegiare i “dinosauri”, non è da apprezzare un’esibizione (per certi versi più vicina ad un Evolution o all’antico Ozzfest, verosimilmente) farcita da tante formazioni “nuove” e “seminuove”, in rappresentanza anche delle nuove generazioni di metal-heads? Sono quasi certo di non avervi convinto del tutto, ma direi di passare direttamente alla cronaca iniziando da:
(Marco “Aimax” Aimasso)

36 Crazyfists
Avete presente quel vecchio film “Viaggio Allucinante”, beh … la sensazione provata dai suoi protagonisti dopo essere stati miniaturizzati e scaraventati all’interno di un corpo umano, non doveva essere poi tanto diversa da quella di un vecchio metallaro come il sottoscritto nel fronteggiare ad un bill così poco classico come quello della giornata odierna.
Fortunatamente il primo impatto è con quei 36 Crazyfists che avevo già incrociato ai tempo di “The Tide And Its Takers”. Così non vengo spiazzato quando la formazione proveniente dall’Alaska scaraventa il suo carico di quel MetalCore che offre il massimo quanto i 4 pestano sui loro strumenti, su un pubblico che gradisce e risponde più che volentieri agli inviti al pogo da parte di Brock Lindow e soci.
(Sergio “Ermo” Rapetti)

Unearth
From Boston Massachusetts, patria dei Celtics e dei Bruins, arrivano fino a Collegno (c’è poco da fare, mi fa un certo effetto citare in questo contesto una località a dieci minuti scarsi da casa!) i potentissimi Unearth, uno di quegli esponenti del metal-core statunitense che sopperisce con un’impressionante forza d’urto e una certa duttilità sonora ad un canovaccio stilistico piuttosto rigoroso all’interno del genere di competenza. In un viaggio musicale che parte da Londra (Iron Maiden), passa da Goteborg (Dark Tranquillity, In Flames) e approda a New Haven (Hatebreed) il sound degli americani è tanto spietato quanto armonico (forse non è proprio il termine adatto, ma la loro sensibilità melodica appare la carta vincente) e conquista il pubblico dell’ora di pranzo, abbastanza sorpreso dall’intro a base di "The final countdown” (uh, quanto amano la Svezia, questi yankee!), felice di poter assecondare il singer Trevor Phipps nella sua istigazione al circle-pit (un piacevole diversivo che è diventato una sorta di ossessione del festival!) e a “sbattersi” sulle note di “The great dividers”, “Zombie autopilot” e “Black hearts now reign”, tra rasoiate death, rallentamenti mosh, break melodici e solismi “gemelli” di antica memoria. Ferro e fuoco.
(“Aimax”)

Death Army (Stage 2)
Poco da dire a proposito dei milanesi Death Army, artefici di un folk-metal dai contorni epici, fuori contesto, fuori orario (il sole picchia come un “fabbro!) e macchiato da alcune approssimazioni tecniche, non solamente imputabili ai limiti del palco “secondario” denominato Stage 2. “Arischild”, “Ragnarok”, “Beowulf” e “Skoal” evidenziano le stimmate di una band ambiziosa negli intenti (voci liriche, strumenti “classici”, …), ma probabilmente ancora un po’ acerba (le lacune dei soli di chitarra sono a tratti quasi imbarazzanti!), almeno in queste specifiche condizioni ambientali e d’esercizio. Interessante l’evocativa voce di Igor. Da valutare in una situazione maggiormente congeniale e favorevole. Disorienta(n)ti.
(“Aimax”)

Job for a Cowboy
Cattivi e brutali, quasi isterici, sparano senza farsi scrupoli i loro watt in faccia ai presenti, andando a pescare dai due album, “Genesis” e “Ruination”, una manciata di canzoni, di stampo Brutal Death Metal, che vengono ben accolte da molti ma che il sottoscritto (probabilmente più per colpa mia che per reale demerito del gruppo) lascia scivolar via senza rimanerne impressionato.
(“Ermo”)

Dragonia (Stage 2)
Dopo l’uscita di “Blood, Will and Soul”, mi aspettavo molto dai Dragonia, e le aspettative non sono affatto andate deluse, anche se la loro performance conferma la sensazione che i nostri, guidati dal chitarrista/cantante Massimo Menichetti , diano il meglio di loro nei momenti più Heavy ed Epici rispetto a quando si lasciano sedurre da sonorità più moderne ed aggressive.
Qualche imprecisione del tastierista (con lo strumento tenuto a tracolla) non inficia comunque la loro prova, che culmina nella cover di “Heaven and Hell”, con la prima dedica dal Gods a Ronnie James Dio,
(“Ermo”)

Atreyu
Se gli Unearth rappresentano la versione in qualche modo “flessibile” del metal-core, con gli Atreyu svisceriamo la sua componente più disciplinata e orecchiabile, in grado di garantire ai ragazzi di Orange County (e non di Sassari, come si ostina ad affermare il mio socio Ermo!) posizioni assai significative nelle classifiche di Billboard e nelle indie chart. Non dispiacciono completamente, i californiani, e tuttavia la loro esibizione appare abbastanza fiacca e manierata, carente proprio in quell’energia che aiuterebbe a dimenticare le magagne in fatto di originalità. Dualismo vocale fin troppo scontato e strutture sonore che sembrano perdere smalto canzone dopo canzone, a cui nemmeno l’approccio “emotivo” riesce a mettere rimedio, contrassegnano un’esibizione sorprendentemente sotto tono, per una band che proprio sulla base di convincenti prestazioni dal vivo aveva conquistato l’attenzione della Victory.
In tale situazione, rimarchiamo una simpatica impostazione metal nei riff e nella loro ostentazione estetica, alcuni brani di discreto livello come “Her portrait in black” (presente nella colonna sonora di Underworld: Evolution), “Gallows”, “Right side of the bed”, “The crimson”, "Doomsday” e “Lip gloss and black” (quella del ritornello Live, love, burn, die, scandito da un pubblico complessivamente non esattamente estasiato), apprendiamo che il nonno del bassista del gruppo ha origini torinesi, per finire con lo apprezzare una dignitosa cover di “You give love a bad name” (l’audience, pur in un profluvio di piercing, borchie e tatuaggi “cattivi”, dimostra di conoscere piuttosto bene il “nemico” Bon Jovi!). Impersonali.
(“Aimax”)

Amphitrium (Stage 2)
Terza ed ultima band della giornata a calcare le assi del piccolo Stage 2, patiscono, come chi li ha preceduti, un sound deficitario, che affossa un poco quel Death Metal ombrato di Thrash che caratterizza le composizione di questi svizzeri, che non hanno di certo fatto della neutralità la loro bandiera. EvilS.A.M. se la cava sia dietro al microfono sia come frontman, e qualche appunto lo si può fare a livello di assoli, ma canzoni come “Elevation” (opener del loro recente esordio “Scarsache”) si dimostrano compatte e frontali (anche se fin troppo derivative) il giusto.
(“Ermo”)

As I Lay Dying
Il ritorno al palco principale fortunatamente mi “riappacifica” con il Gods, assieme agli Unearth, gli As I Lay Dying si segnalano come la più gradita “sorpresa” di un pomeriggio soleggiato. Certo gli statunitensi (da San Diego) non sono più dei novellini, e lo testimonia una discografia nutrita, con l’ultimo lavoro (“The Powerless Rise”) ben rappresentato dall’ottima “Beyond Our Suffering”. Ma anche i pezzi più vecchi come “94 Hours” e “Meaning In Tragedy” non mancano di appassionare e di mettere tutti con le spalle al muro, grazie a delle vere e proprie bordate sonore sempre incitate da uno spietato e coinvolgente Tim Lambesis.
(“Ermo”)

Fear Factory
Non sono molti i gruppi capaci di tracciare l’archetipo di uno specifico sound. Tra questi sicuramente i Fear Factory, paladini incontrastati del suono gelido, cibernetico e ferale, loro autentico marchio di fabbrica, con o senza quel simpatico “panzone” di Dino Cazares (“Archetype” è un lavoro eccellente, per esempio).
Il “sorprendente” rientro del mitico Dino (e la garanzia offerta dalla prestigiosa presenza di Gene Hogland alla batteria, ricordando, al contempo, l’importante contributo alla causa offerto in passato dal suo “discepolo” Raymond Herrera) consente, però, al nuovo “Mechanize” di recuperare pienamente quell’alchimia artistica e quell’integrazione d’intenti che ci aveva conquistato ai tempi di “Soul of a new machine” e “Demanufacture”, anche senza replicarne, fatalmente, la magnificenza.
Abbastanza lontano dal mezzo passo falso di “Digimortal”, il nuovo disco si giova della ritrovata “armonia” in seno alla band, e anche quando sottoposti all’accostamento con il “vecchio” repertorio in una performance live, i brani di “Mechanize” reggono discretamente bene l’impegnativo confronto, tra brandelli cerebrali, ossessioni ritmiche, glaciali aperture melodiche, linee vocali taglienti, violente e persuasive, in un flusso pressoché ininterrotto (beh, forse il pathos viene leggermente meno durante lo “sfoggio” di turpiloquio in italiano offerto dal buon Cazares!) di prepotente coinvolgimento dai contorni quasi “sacrificali”. Ed ecco che “Mechanize”, “Powershifter” e “Fear campaign” s’intersecano con “Martyr”, “Demanufacture”, “Self bias resistor”, “H-K (Hunter-killer)” e con la devastante “Replica”, laddove tocca a “Shock” e “Edgecrusher” rappresentare il versante più “alternativo” del gruppo e anche “Acres of skin” e “Linchpin” non sfigurano poi troppo in un momento di significativa esaltazione sensoriale. Come dite? La laringe di Burton Christopher Bell non è più quella dei tempi “belli”? Analizzando in maniera distaccata la questione, probabilmente dovrei darvi ragione, ma mentre vivo questo bellissimo momento non riesco proprio ad essere completamente “razionale”. Apocalittici.
(“Aimax”)

DevilDriver
Il Gods cresce d’intensità. Dopo i “restaurati” Fear Factory, ecco sul palco Dez Fafara e compagni.
Anche loro non sfuggono alla dura legge di una giornata praticamente dedicata al Metal & Death Core a stelle e strisce, ma i DevilDriver hanno dalla loro un’invidiabile personalità e soprattutto diverse frecce (leggi buone canzoni) nella loro faretra.
E le scagliano una dietro l’altra (“Nothing’s Wrong?”, “Pray For Villains”, “These Fighting Words“, ”Before The Hangman's Noose” … ) contro dei metalhead ormai arrostiti ma che non si negano agli inviti ad un furioso circle pit (mi è venuto il fiatone solo nel vederli correre!!) ed a un po’ di sano pogo. Anche i cinque musicisti sul palco sembrano divertirsi e si scambiano sguardi compiaciuti, con Dez che si conferma grande interprete e scafato intrattenitore ed i due chitarristi, Mike Spreitzer e Jeffrey Kendrick, che non sono certo da meno, peccato solo che in alcuni momenti l’acustica abbia un po’ penalizzato la loro prestazione.
“I Dreamed I Died” chiude infine la loro parentesi live, e devo ammettere che con tutto il sole che ha imperato sul Parco Della Certosa Reale qualche incubo cominciavamo ad averlo…
( “Ermo”)

Killswitch EngageI Killswitch Engage headliner al GOM? Beh, anche questa è una novità di un’edizione comunque con convenzionale nelle scelte. La loro presenza in tale collocazione non sorprende tanto per la qualità espressa dalla band, ai massimi livelli del genere di competenza e sostenuta anche da una coerenza attitudinale che li protegge da ogni eventuale accusa di opportunismo (ricordiamo i trascorsi di Mike D'Antonio negli Overcast, antesignani dell’alleanza tra metal e hardcore), ma lo fa perché stiamo parlando di una formazione di enorme successo soprattutto negli Stati Uniti e in ogni caso sicuramente poco abituata a set così lunghi e “prestigiosi”. Insomma, il primo ad essere stupito da questa anomala situazione sembra proprio il valente act del Massachussets, il quale, però, probabilmente anche per onorare degnamente la circostanza, non lesina la consueta dose di forza ed energia, finendo per concludere palesemente stremato (soprattutto il pur possente e bravo cantante Howard Jones!) la sua performance.
I nostri sono davvero un’eccellente “macchina” bellica da live, capace di mescolare attitudine, impegno (sono note le loro battaglie liriche contro certe forme di conformismo), competenza e divertimento, rappresentato, quest’ultimo, essenzialmente dall’approccio scanzonato del chitarrista Adam Dutkiewicz, che si presenta abbigliato con un mantello da Superman e millanta continuamente le sue doti di bevitore (“I’m going to drink every fucking beer in this place …”), di “ruttatore” e di amatore (“I wanna be inside of all of you, girls …), riuscendo, ovviamente, ad offrire al pubblico presente solo un’efficace testimonianza delle prime due delle sue vanterie (il ritmo è stato quello di una birra tracannata “alla goccia” praticamente dopo ogni pezzo, con relativo corredo sonoro …).
Adam non è solo un simpatico “buffone” con una soglia di resistenza all’alcol sorprendentemente elevata (dopo tutte quelle birre, riesce comunque a trovare la lucidità necessaria per ringraziare con tono serio tutta l’audience presente nell’Arena, per la sua grande partecipazione!), ma anche un ottimo compositore e un valente chitarrista, contributo fondamentale al suono elaborato ed ispirato dei Killswitch Engage, tra swedish death, thrash, hardcore e la giusta dose di groove melodico. “Rose of sharing”, “Starting over”, “Breathe life”, “This is absolution”, una versione estesa di “Take me away” e “My last serenade”, rappresentano al meglio la capacità di colpire e “ferire” in profondità i sensi e le cellule cerebrali di tutti gli appassionati del settore, e per chi pensa che il mondo del metal sia solo fatto d’ingratitudine e di prevaricazione arriva una singolare trascrizione, in pieno KSE-style, di “Holy diver” evidentemente una sentita celebrazione a chi non c’è più e ha contribuito fattivamente alla voglia di fare musica di questi ragazzi americani. Distruttivi, divertenti e persino un po’ commoventi.
(“Aimax”)
Report a cura di Marco Aimasso

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