Copertina 6,5

Info

Anno di uscita:2008
Durata:55 min.
Etichetta:Frontiers
Distribuzione:Frontiers

Tracklist

  1. 1. PRINCIPLES OF PARADOX
  2. 2. THE FIRST ROCK
  3. 3. EVIL WOUND
  4. 4. DIVIDE AND REIGN
  5. 5. HIGH NOON AT THE BATTLEFIELD
  6. 6. THE CLAN
  7. 7. BLOOD IN BLOOD OUT
  8. 8. TEARS OF THE SUN
  9. 9. HOSTILE BREED
  10. 10. CHAOS A.C.

Line up

  • Andre Andersen: keyboards, guitars
  • Mark Boals: vocals
  • Marcus Jideli: guitars
  • Per Schelander: bass
  • Allan Sorensen: drums, percussion

Voto medio utenti

Arriva un momento nella storia di un gruppo, in cui la verve creativa si affievolisce e le sue produzioni discografiche ne risentono immancabilmente. E’ difficile rimanere per anni agli stessi livelli di eccellenza che ti hanno reso meritevole di fama per cui, si sa, ad un certo punto è inevitabile innestare il pilota automatico e iniziare a produrre lavori in fotocopia.
Per i Royal Hunt questo punto di non ritorno è già stato raggiunto parecchi anni fa. Lavori indimenticabili come “Clown in the mirror” o “Moving target” sono ormai un lontano ricordo. La dipartita di DC Cooper all’indomani del buono, ma non eccelso “Paradox” ha aperto una fase di aurea mediocritas caratterizzata dal nuovo vocalist John West e dischi come “Fear”, “The mission” (il migliore del lotto), “Eye witness” e “Paper blood”, piuttosto lontani dallo splendore degli esordi.
Oggi, con l’ingresso in formazione di un ennesimo singer, il talentuoso Mark Boals (già con Malmsteen e Ring of Fire), la formazione capitanata da Andre Andersen prova a riprendersi ciò che è suo, e sceglie di ripartire proprio da “Paradox”, un album da molti considerato come il picco artistico mai raggiunto dall’act danese.
Premesso che, a mio modesto parere, il doppio live “1996” rimane tuttora ineguagliato, c’è da dire che questo tentativo risulta riuscito solo in minima parte. La moda ormai piuttosto preoccupante di dare un seguito al proprio episodio di maggior successo, non può nascondere il più grosso difetto che i Royal Hunt del 2008 si portano dietro: un songwriting poco ispirato, sempre più prerogativa di un Andersen con evidenti problemi di autocitazione. “Collision course” recupera la formula del più illustre predecessore, ed è perciò costruito come una lunga suite suddivisa in vari movimenti, nella quale l’immediatezza delle melodie lascia spesso il passo ad atmosfere evocative ed intimiste, e ad elaborate parti progressive. La prova di Boals dietro al microfono è ottima, ma rimane comunque il sospetto che anche lui, come John West, non sia del tutto compatibile con la musica di questa band. Cosa volete, DC Cooper era perfetto, non sono ancora riuscito ad accettare che se ne sia andato!
Detto questo, motivi di soddisfazione ce ne sono: il disco è senza dubbio più fresco e dinamico dei due precedenti (anche se, visto il livello, non era forse difficile fare di meglio), la opener “Principles of Paradox” è davvero un gran bel biglietto da visita, con quel suo incedere progressivo magistralmente guidato dalle tastiere di Andersen. Anche la successiva “The first rock” non è niente male, tirata alla grande e con un chorus davvero azzeccato, come i Royal Hunt non ne facevano da anni. “High noon at the battlefield”, con quella sua prima parte acustica e il suo incedere epico, è invece uno dei rari momenti in cui i danesi cercano di esplorare territori nuovi, bisogna dire con ottimi esiti. Il resto, spiace dirlo, suona tutto molto già sentito, ma non sarebbe certo un problema, se non fosse che i pezzi sono formalmente ben riusciti ma freddi, privi di quel quid, di quella capacità di emozionare che li possa speciali.
Non voglio essere così presuntuoso da considerare finito questo gruppo. E’ solo che ormai, in una discografia giunta oggi al nono episodio, il solo “The mission” sembra essere in grado di rivaleggiare coi primi tre capolavori (sempre secondo la mia personale opinione, perché so che quel disco è piaciuto poco!). Da troppi anni sto aspettando che recuperino la forma di un tempo: vero che la speranza è l’ultima a morire, ma mi sa che qui c’è il serio rischio di diventar vecchi aspettando…
Recensione a cura di Luca Franceschini
Gran bel seguito di un album irrangiungibile

Impossibile fare di meglio di"Paradox",eppure questo sequel musicalmente parlando ha tutte le carte in regola per essere sullo stesso livello.Ma Mark Boals non è DC Cooper e neanche John West,pur avendo una sua timbrica unica,ma alla lunga poco espressiva e quasi per nulla emozionale.Però lui stesso e qui al suo meglio e la produzione e le songs di Andersen sono superlative.

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