Copertina 10

Info

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Genere:Prog Rock
Anno di uscita:1985
Durata:44 min.
Etichetta:Mercury

Tracklist

  1. THE BIG MONEY
  2. GRAND DESIGNS
  3. MANHATTAN PROJECT
  4. MARATHON
  5. TERRITORIES
  6. MIDDLETOWN DREAMS
  7. EMOTION DETECTOR
  8. MYSTIC RHYTHMS

Line up

  • Geddy Lee: bass, vocals
  • Alex Lifeson: guitars
  • Neil Peart: drums

Voto medio utenti

“Against the run of the mill
Swimming against the stream
Life in two dimensions is a mass production scheme”
N. Peart (“Grand Designs”)


“Mi piaceva l’idea delle tastiere all’inizio. Mentre una parte del nostro sound si sviluppava, a volte prendevamo la strada sbagliata. […] Perché qualcosa di diverso? Non avrei dovuto cercare qualcosa di diverso. Che succede con questa tastiera? Non è nemmeno uno strumento vero”.
A. Lifeson


“Alex ed io a volte eravamo in disaccordo su quanto le tastiere dovevano essere presenti. Ma ‘Power Windows’ è un album molto importante, perché è la miscela finale ed essenziale delle tastiere e della chitarra Rush”
G. Lee


Neil, il cuore pensante. Alex, l’inossidabile rockettaro. Geddy l’analitico perfezionista, perennemente in cerca di un nuovo universo musicale da esplorare e di un nuovo limite da superare.
Per ciascuno dei tre Rush, per quello che mi è sembrato più consono alla loro indole e al loro personaggio pubblico, ho giocato a scegliere il verso di una canzone, piuttosto che un pensiero sulla musica o sull’identità del gruppo, non che sui ruoli da svolgere all’interno di esso. Frasi e parole, insomma, che mi permettessero di focalizzare impressioni e commenti su “Power Windows”, gioiello del premiato trio canadese, datato 1985, pubblicato da Anthem e distribuito da Mercury.
Le citazioni, raccolte fra le interviste del dvd “Rush: Beyond The Lighted Stage”, raccontano bene, a mio avviso, del delicato passaggio stilistico dalle caratteristiche tipiche degli anni ’70 a quelle degli anni ’80 (diciamo così per semplificare), che anche tante altre band si trovano ad affrontare. Di quel passaggio dallo stile prog più classico alla contaminazione con le nuove tendenze e le nuove sonorità, che tanto affascinano Peart e Lee. Del tentativo, insomma, di non rimanere fermi al palo, mentre la Storia della Musica corre a grandi passi verso nuovi scenari.
I nostri sono determinati a portare avanti questo progetto di maturazione e di evoluzione della propria musica, con provata coerenza e senza snaturarsi del tutto, rafforzando piuttosto, in apparente contraddizione, l’identità del gruppo.
Un processo di questa portata e di questa complessità non può consumarsi in un breve arco di tempo. Soprattutto non può avvenire senza qualche tentativo a vuoto, qualche contrasto e senza lasciare qualche vittima sul campo di battaglia. In questa storia, la vittima sacrificale di turno è Terry Brown, storico produttore di tutti i primi dischi (“il quarto membro della band” dicono spesso gli altri tre), che all’indomani del controverso “Signals” viene però gentilmente scaricato dal gruppo, che lo giudica non adatto ad accompagnare questa trasformazione.
Nemmeno Peter Henderson, chiamato per l’ottimo, successivo “Grace Under Pressure”, riesce a interpretare a pieno la voglia di cambiamento, che probabilmente i Rush non sanno ancora definire ed esprimere in maniera compiuta a loro stessi e men che meno ai propri collaboratori. Il disco si avventura con coraggio per territori di musica elettronica, che già nel finale di “Moving Pictures” erano stati timidamente anticipati, ma qualcosina nel suono ancora non funziona al 100%. Diventa sempre più impellente la necessità di un parere esterno (forte e insindacabile), esperto e possibilmente distaccato dalla storia pregressa del gruppo, in modo da evitare influenze e condizionamenti del pesante passato. In due parole, i Rush hanno bisogno di un “Peter Collins”.
Facile dirlo col senno di poi. In realtà, agli occhi di un rigido ortodosso come me, questa scelta, se vissuta in contemporaneità con gli eventi, sarebbe sembrata un disastro. Ma la differenza fra la (mia) normalità e la genialità (indovinate di chi) sta nella capacità di fare scelte lungimiranti, fuori dagli schemi e vincenti.
La scelta di questo produttore è una sorpresa per tutti e, a leggere qualche intervista qua e là, lo è per Collins stesso. Questo il suo curriculum in breve:
1) arriva dalla scena inglese;
2) ha in testa solo i metodi e i suoni a là Trevor Horn (dovete pensare a qualcosa di iperprodotto, tipo i Frankie Goes to Hollywood);
3) non conosce il lavoro della band e
4) non ha mai avuto a che fare con gruppi o con musica rock.
Il risultato di questa insolita collaborazione è un disco semplicemente eccezionale, frutto di una band particolarmente ispirata e di uno staff di tecnici in studio in grado di recepire le intenzioni del gruppo e di concretizzarle al meglio.
Le composizioni sono lontane dalla desolazione apocalittica di “Grace Under Pressure”, disco cupo e volutamente scarno, in cui l’elettronica è un espediente per raccontare malinconicamente di sopravvivenza e di solitarie intelligenze artificiali.
La batteria elettronica (ab)usata in “Power Windows” si colora di ritmi infiniti, di effettistica, di ambienti e riverberi, che fanno danzare i pad sotto i colpi delle bacchette: Neil Peart, straordinario batterista di scuola classica, Bonham/Moon per intenderci, si concede ogni libertà dispensata da gusto personale e tecnologia, spaziando fra ritmi africani, trigger e filtri di ogni tipo. Inarrestabile e tentacolare come sempre, affida potenza e precisione al digitale, abbandonando in modo a dir poco riuscito le pelli dei tamburi tradizionali.
Lo stile di Geddy Lee prosegue nella sua mutazione già intravista nei dischi precedenti: lo stile tellurico e cinetico da asso del rotondissimo Rickenbacker, fa spazio all’agilità volatile e inafferrabile espressa sul più adatto e moderno basso Wal, in una sequenza di note semi-slappate miste ad accordi, che tradiscono il suo studio e la sua ammirazione per il grande Jeff Berlin. Come tastierista si difende sempre, ma i tasti d’avorio servono soprattutto a stimolare la sua vena compositiva, che lui stesso sente limitata, se affidata alle sole quattro corde del basso.
Tecnici e sessionmen lo aiutano nell’orchestrazione e nella programmazione dei synth, presentissimi negli arrangiamenti, tuttavia perfetti nel non sovrapporsi mai alla struttura compositiva, ingombrandola.
Alex Lifeson riesce mirabilmente a non farsi intimidire dalla nuova direzione musicale. Si è letto tante volte che le tastiere vanno a saturare le frequenze medie che dovrebbero essere il regno incontrastato delle sue sei corde, eppure le sue parti di chitarra sono particolarmente ricercate, particolarmente ben eseguite, studiate e meno improvvisate (soprattutto per quanto concerne le parti soliste). Grazie al tocco e ad un feeling più “analogico”, che eleva il suo strumento rispetto alla naturale piattezza dei suoni digitali di tastiere e sequencer, anche la chitarra trova (eccome) uno spazio degnissimo di nota in questo disco.
Grandissimo merito di questo rendimento credo vada attribuito a Peter Collins, che da navigato professionista, si dimostra in grado di prendere tutto il buono dei Rush e di traslarlo su un binario musicale parallelo, senza omologarli alla moda contingente, bensì assecondando la necessità e il gusto di sperimentare al di fuori della “comfort zone” compositiva del trio.
Impossibile, in ultimo, non spendere qualche parola sui testi del batterista Neil Peart.
Ho letto spesso dell’accostamento della parola “power” contenuta nel titolo al concetto di “potere”. E sicuramente è così. Tuttavia trovo più suggestivo e (forse) più calzante la traduzione “energia”. Questo tema si ripete in tutti i brani, e viene sviscerato in molte delle sue sfaccettature, siano esse positive o negative: dalla capacità di ispirare gli uomini alle migliori azioni, alla spinta uguale e contraria a perpetrare i peggiori crimini della storia.
“The Big Money”, brano di apertura del disco, si rifà ai temi dell’omonimo romanzo di John Dos Passos e critica ferocemente la forza del desiderio di accumulo, l’illusione effimera della gioia dei sogni costruiti su “una montagna di quattrini”.
“Grand Designs” parla con semplicità ed efficacia dell’energia innovativa delle avanguardie artistiche. Ho sempre interpretato il verso che cita la “vita in due dimensioni” come un chiaro riferimento alla rivoluzione culturale cubista. E le “forme contro ogni regola”, non sono forse lì a ribadire il pensiero anticonvenzionale dell’architetto Howard Roark, il protagonista de “La Fonte Meravigliosa” di Ayn Rand, che già aveva ispirato il concept di “2112”?
Si prosegue con “Manhattan Project”, che prova a raccontare nei suoi cinque minuti di durata (e nel suo crescendo d’archi) la nascita della bomba atomica, non che delle terribili conseguenze di tale creazione su artefici, militari e vittime.
In “Marathon” sentiamo l’energia del corpo umano spinto al proprio limite. “Territories” (con parti di chitarra fra le più belle della carriera di Alex Lifeson) parla del desiderio di conquista. “Middletown Dreams“ dell’impulso dei sogni e delle speranze nella vita di provincia. “Emotion Detector” dell’energia dell’amore stesso.
La splendida e conclusiva “Mystic Rhythms” diffonde invece l’energia ancestrale del ritmo, fonte del movimento e linguaggio antichissimo ed universale.
Le vive parole di Geddy Lee, riportate in apertura, centrano la questione alla meglio. Gli acerbi tentativi precedenti e gli eccessi successivi avranno sempre dei punti deboli, cui è del tutto immune questo disco, esempio da manuale di perfezione stilistica.
Che sia “potere”, “energia” o quello che il vostro cuore riesce a sentire in queste note, qualunque sia il senso che vogliate percepire o attribuire a questi brani, sta di fatto che vi sarà difficile essere indifferenti alla carica emotiva ed evocativa che “Power Windows” riesce a trasmettere, con i tre Rush, supportati da cori e orchestrazioni trascinanti.
Alla fine di ogni ascolto mi sento come il personaggio ritratto in copertina, affascinato dalla carica elettrica che lambisce il vetro della finestra, ma pur sempre intimorito, attento a non lasciare la sicurezza della stanza, circondato dal conforto di oggetti familiari.
Ma la differenza fra la (mia) normalità e la genialità (indovinate di chi) è tutta lì: i Rush sono già là fuori a cavalcare il lampo e a me non resta che ammirarli dal mio unico punto di vista, la mia “power window”, con lo sguardo accecato da tanta luce nella notte.

A cura di Ennio “Ennio” Colaninno

Recensione a cura di Ghost Writer

Ultime opinioni dei lettori

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Ultimi commenti dei lettori

Inserito il 02 ott 2015 alle 15:49

Credo che Ennio conosca i dischi dei Rush meglio dei Rush. Ho detto tutto.

Inserito il 02 ott 2015 alle 15:30

Uno dei rari casi in cui la recensione merita la stessa dedizione che impone l'ascolto di un lavoro come Power Windows. Il lavoro lo conosco a memoria, ma se non fosse così, la recensione ne invoglia la scoperta: complimenti al bravissimo Ennio. Gimme more. AMV

Inserito il 02 ott 2015 alle 13:02

Grazie Marco, grazie davvero. Grazie a Voi, che ospitate noi utenti, in un rapporto di scambio e di condivisione davvero speciale. Ne approfitto per ribadire che scrivere senza scadenze, per puro gusto e per giunta solo di ciò che ci piace (e che conosciamo molto bene) è ovviamente molto più semplice. Il lavoro di un recensore come voi può essere molto più insidioso e complesso, va sempre ricordato. E soprattutto grazie ai Rush, che ci hanno regalato dischi come questo!

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