Copertina 10

Info

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Anno di uscita:1975
Durata:82 min.
Etichetta:Swan Song

Tracklist

  1. CUSTARD PIE
  2. THE ROVER
  3. IN MY TIME OF DYING
  4. HOUSES OF THE HOLY
  5. TRAMPLED UNDERFOOT
  6. KASHMIR
  7. IN THE LIGHT
  8. DOWN BY THE SEASIDE
  9. TEN YEARS GONE
  10. NIGHT FLIGHT
  11. THE WANTON SONG
  12. BOOGIE WITH STU
  13. BLACK COUNTRY WOMAN
  14. SICK AGAIN

Line up

  • Robert Plant: vocals, harmonica
  • Jimmy Page: guitar
  • John Paul Jones: bass, organ
  • John Bonham: drums

Voto medio utenti

“La tecnica non conta. Io mi occupo di emozioni”. Jimmy Page

Giusto stamattina mi è caduto l’occhio su questa frase. Avrò letto “Il Martello degli Dei” (Edizioni Arcana - 1988) di S. Davis decine di volte, ma questa mattina quelle parole mi sono suonate del tutto nuove e con il significato giusto, come se avessi trovato qualcosa che cercavo da tempo.
Certo, miei cari, sono andato a rivedere qualche capitolo del libro in questione: uno non si mette a scrivere dei Led Zeppelin senza un minimo di tremarella ai polsi e di dubbi su come affrontare l’argomento. Ho avvertito la necessità di rinfrescare alcuni dati, alcune sensazioni e anche qualche nozione storica relativa all’album, nozione che secondo me va riportata sempre con un minimo sindacale di attendibilità, in qualunque circostanza. E qui la “circostanza” decisamente non è “qualunque”, perché si sta parlando del Mito. O almeno per me è così.
Ho deciso di scrivere qualcosa su “Physical Graffiti”, sesto disco della band inglese, per il motivo più banale, eppure più stimolante di tutti: è il mio disco preferito dei Led Zeppelin. Esce come doppio vinile nel 1975 per l’etichetta Swan Song, creatura voluta dal gruppo e dal manager Peter Grant, tutti finalmente felici di essere liberi dalle imposizioni artistiche (ed economiche) della Atlantic: Page e compagni sognano di promuovere i migliori artisti della scena e di poter avere totale carta bianca sulla propria produzione, mentre Grant (ma questa è una mia personalissima illazione) sogna di gonfiare ancora di più il portafogli, con meno obblighi nei confronti della casa discografica matrigna, che si preoccuperà solo della distribuzione.
Il vinile che ho fra le mani è magnificamente confezionato. La copertina, dominata da un grigio urbano e monolitico, raffigura la palazzina ai numeri civici 96 e 98 East 8th Street / St. Mark's Place (Manhattan). Il cartoncino della custodia è ritagliato su alcune delle finestre della facciata raffigurata, lasciando trasparire il titolo dell’album e varie foto, mentre il moniker del gruppo fa la sua bella figura scolpito nella pietra del prospetto. Davvero bello.
Ma veniamo alla musica. Il disco, come di certo saprete, fu assemblato come una raccolta di brani inediti, ai quali furono aggiunti alcuni out-take degli LP precedenti (“III”, “IV” e “Houses of the Holy”), dalle cui sessioni, evidentemente, era rimasto fuori molto materiale. Il mio primo ascolto di “Physical Graffiti”, datato 1987, non l’ho fatto di certo sapendo di questo dettaglio e paradossalmente ho trovato il disco, pur nella sua lunghezza, perfettamente omogeneo, tutt’altro che un patchwork di scarti! La differenza, gradevolissima a mio avviso, si può percepire fra primo e secondo disco: uno granitico e duro come un mattone in faccia, l’altro più vario e ricco di episodi di differente atmosfera, in cui la matrice di hard rock puro si tinge di mille tinte, grazie ad un magnifico uso delle tastiere ed alla magia della chitarra acustica (la sola “Bron-Yr-Aur” meriterebbe tutto un articolo a parte).

Disco 1
“Custard Pie” e “The Rover” danno il via alle quattro facciate del doppio 33 giri. Dopo questi primi dieci minuti di musica, da testone quale sono, mi convinco ancor più fermamente della mia idea: “Physical Graffiti” ha un suono più solido ed omogeneo rispetto alle pur ottime uscite precedenti; mi sembra di percepire una sicurezza d’intenti, la costruzione di un linguaggio meno sperimentale, forse, ma maggiormente carico d’identità musicale ed artistica rispetto, ad esempio, ad “Houses of the Holy”, magnifico, ma a tratti così eterogeneo e dispersivo.
Il lato A si chiude con la lunga “In My Time of Dying”, blues tradizionale la cui paternità è erroneamente attribuita a Page e Plant. Il brano è stato a lungo accantonato in sede live, in quanto ritenuto talismano negativo, catalizzatore di eventi nefasti che colpiscono molto duramente il gruppo negli anni a venire. Ma scaramanzie e maledizioni a parte, questo blues elettrico è davvero sensazionale; la slide iniziale ipnotizza l’ascoltatore, preso nelle spire del serpente Page e poi il pezzo esplode in tutta la potenza, complici La Sezione Ritmica (mi perdonerete le dovute lettere maiuscole) e la verve di Plant. Al cambio di lato corrisponde un cambio di atmosfera e di temi: “Houses of the Holy” (chiaramente un out-take dell’omonimo album) riporta un po’ di brio e leggerezza, mentre la tesissima “Trampled Under Foot”, con un clavinet praticamente perfetto di J.P. Jones, corre a 100 km/h spinta dalla pulsione erotica di Plant e della roboante batteria di “Bonzo”. Il finale del Disco 1 è affidato a “Kashmir”, brano che contiene tutta la grandezza del quartetto, condensata in 8 minuti e mezzo: il ritmo portante della batteria è un classico e conferma Bonham come inesauribile punto di riferimento per i batteristi delle generazioni successive. Jones si diverte ad orchestrare abilmente con le sue tastiere, Plant, sognante cantastorie, ci accompagna nel viaggio verso Oriente con voce prima suadente e poi energica e appassionata. Page pennella con la sua chitarra ritmiche e accordi ora cadenzatissimi ora aperti, come a tracciare questo viaggio, fatto di alternarsi di marcia e pause ristoratrici. Storia della Musica.

Disco 2
È’ quello che a lungo ho preferito fra i due: i pezzi si succedono come gemme, uno dopo l’altro, uno meglio dell’altro. Sarebbe sufficiente l’intro di tastiere del gran maestro John “Paul Jones” Baldwin nell’iniziale “In the Light” per andare in estasi. E l’intera traccia è un susseguirsi di cambi di ritmo e di sovraincisioni di chitarre, che si stendono su un tappeto tessuto ad arte dal sintetizzatore e su una ritmica solida e precisa. Prendiamo “Bron-Yr-Aur”, minuti 2:06. Una volta l’ho sentita forse venti volte di seguito, non avendone mai abbastanza, cercando di cogliere ogni virgola, ogni dettaglio di quell’arpeggio ammaliante e persino un po’ sgangherato, ma che sembra aprire le porte di un’altra dimensione. Prendiamo “Down by the Seaside” e “Ten Years Gone”. Sogno, ricordo, malinconia, ed evocazione di luoghi e persone lontane, espressi in due canzoni di una delicatezza rara, in cui i suoni delle chitarre di Page si moltiplicano, si aprono, si incupiscono e poi si induriscono all’improvviso. Girato il disco sul piatto, anche nel Disco 2 il lato B è introdotto da un brano arioso e rapido, “Night Flight”, al quale segue l’ottima “The Wanton Song”, il cui riff rocciosissimo ci ricorda, se mai ce ne fosse bisogno, chi ha scritto le regole del gioco, chi ha creato lo standard, che tanti copieranno più o meno velatamente. Con “Boogie With Stu” (in cui compare Ian Stewart al piano) e “Black Country Woman” i nostri quattro ci invitano intorno al fuoco e del camino e ci regalano un momento di confidenza, fra chitarre acustiche e mandolini, facendoci rivivere la fantastica atmosfera di “III”. Chiude il rock scanzonato di “Sick Again”, in cui agli ammiccanti “miagolii” di Plant fa eco nel finale la slide dell’inseparabile Page.
Cosa mi fa preferire “Physical Graffiti” agli altri capolavori dei Led Zeppelin? Innanzitutto in questo disco sembra esserci un intero esercito di chitarre, dirette magistralmente dallo Stregone Page, non sempre impeccabile nella tecnica, ma in grado di trasportarti letteralmente “altrove” con il suo strumento (giusto per ribadire e per spiegare il perché della citazione iniziale). Secondo: il ruolo fondamentale di John Paul Jones nella veste di doppio strumentista (ottimo bassista e tastierista), che in questo disco, molto più che in altri, riesce a fondere nel sound della band l’uso di clavinet, sintetizzatori, mellotron e organo senza che questi appaiano come elementi posticci e appiccicati forzatamente. Per il resto, Bonzo è la solita indiscutibile bestia (e qui sembra suonare più diretto e a suo agio che mai) e Plant, diviso come sempre fra sogni arcadici di pace e magnetismo sessuale da rockstar, passa con nonchalance da atmosfere più soft al rock più sfrenato.
Impossibile, da parte mia, aggiungere una sola riga che risulti significativa ai fiumi di parole spesi per Jimmy Page, Robert Plant, John Paul Jones e John Bonham, sarebbe persino presuntuoso. Mi limito ad esprimere devozione ed ammirazione per un gruppo che secondo me non ha avuto eguali nella storia del Rock, che ha espresso il senso di grandezza e dell’eccesso da star all’ennesima potenza come pochissimi, che ha incarnato l’idea della setta, della società segreta, del mistero, della leggenda alimentata dalle mille eccentricità dei componenti, dalle loro tragedie familiari a lungo indicate come il prezzo da pagare al diavolo stesso. Il voto a tutti i loro dischi può solo essere un 10, carico di immensa gratitudine e di emozione.

A cura di Ennio “Ennio” Colaninno
Recensione a cura di Ghost Writer

Ultime opinioni dei lettori

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Ultimi commenti dei lettori

Inserito il 17 feb 2021 alle 17:44

Uno dei miei dischi preferiti di sempre, potrei sentire In My Time Of Dying per giorni e giorni senza stancarmi mai. Bellissima recensione!

Inserito il 23 nov 2014 alle 16:40

Complimenti vivissimi Ennio, anche se questo album non lo amo particolarmente (eehh lo so che ti deluderò, ma de gustibus...)

Inserito il 23 nov 2014 alle 11:10

ps. fermo restando che resti un paraculo nella scelta degli album ;-P :-))) ma io conosco bene solo i dischi storici. E so scrivere solo di ciò che conosco come si deve. Anzi, pensavo che la scelta di Physical Graffiti sarebbe stata criticata... Comunque grazie a te e a polimar, sempre gentilissimo!

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