Copertina 5,5

Info

Anno di uscita:2007
Durata:46 min.
Etichetta:Metal Heaven
Distribuzione:Frontiers

Tracklist

  1. A SIGN OF THE TIMES
  2. NOWHERE FAST
  3. NEVERLAND
  4. SHADOWS
  5. EXODUS
  6. MADE IN HEAVEN
  7. LET THE WIND CARRY YOU HOME
  8. ENIGMA
  9. MASTERMIND
  10. PATH OF DESTRUCTION
  11. CHILDREN OF TOMORROW

Line up

  • Ian Parry: vocals
  • Joshua Dutrieux: keyboards
  • Ivar de Graaf: drums
  • Henk van der Laars: guitars
  • Guests:
  • Lou St.Paul: guitars
  • Rosita Abbink, Erna auf der Haar: female vocals
  • Kyrah Dutrieux: spoken words
  • Judith Rijnveld: femals choirs
  • Niels Vejylt: guitar
  • Marcel van der Zwam: bass

Voto medio utenti

Mamma mia, quanto spreco di talento, nel nuovo lavoro dei Consortium Project.
Innanzi tutto quello di Ian Parry (Elegy, Vengeance, carriera solista, collaborazioni assortite, tra cui ricordiamo Ayreon, Misha Calvin, Andrè Andersen …), che pur senza essere uno dei miei cantanti preferiti in assoluto, non è sicuramente l’ultimo arrivato nel campo della fonazione modulata, e poi quello della preparata coppia (anch’essa) di fama Elegy Joshua Dutrieux / Henk Van Der Laars, del nuovo acquisto Ivar de Graaf (ex-Within Temptation), nonché del nutrito gruppetto di altri ospiti che hanno contribuito a questa quarta prova del Consorzio.
Tanta competenza e tecnica formalmente ineccepibile purtroppo non asservita ad una altrettanto sostanziosa capacità e fantasia nel songwriting, il quale si mantiene quasi sempre al di sotto della linea immaginaria che separa l’indifferenza e la mediocrità dalle varie gradazioni dell’apprezzamento.
Alimentato da un inquietante concept futuristico-catastrofico di stampo ecologista, il power-prog di “Children of tomorrow”, a volte ammantato d’oscurità, in altre situazioni arricchito da arrangiamenti di retaggio sinfonico/neoclassico, avvicina in maniera fin troppo evidente i nostri allo stile di (ma guarda un po’) Ayreon ed Elegy, rammenta pure qualcosa del modus operandi dei Symphony X, ma appare davvero oltremodo “freddo” e stagnante per riuscire (perlomeno) ad appassionare e coinvolgere chi si è entusiasmato per le migliori prestazioni dei suddetti campioni del settore.
Rari sono, così, gli episodi veramente degni di nota (la buona “Shadows”, la gagliarda solennità tratteggiata in “Made in heaven”, “Let the wind carry you home”, una sorta d’omaggio alle leggiadre ballate figlie della tradizione musicale britannica, e, tutto sommato, le sfumature mediorientali di “Nowhere Fast” e le gradevoli cadenze vagamente caliginose, non troppo dissimili dai Sabbath periodo Tony Martin, di “Path of destruction”), mentre per il resto regna la monotonia e il rimpianto per quello che avrebbe “dovuto” essere e sfortunatamente non è stato.
Sorry Ian … maybe next time, magari proprio con il ventilato ritorno degli Elegy.
Recensione a cura di Marco Aimasso

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