Copertina 7,5

Info

Anno di uscita:2006
Durata:39 min.
Etichetta:Original Sound
Distribuzione:Brainstorm

Tracklist

  1. TRACK ONE
  2. TRACK TWO
  3. TRACK THREE

Line up

  • Sanford Parker: guitar, vocals
  • Jason Depew: guitar
  • Brian Sowell: bass, vocals
  • Bill Daniel: drums

Voto medio utenti

Sulla copertina del disco campeggia un’immagine indefinita che esprime qualcosa di sottilmente sinistro. Tre brani per complessivi quaranta minuti di musica. Tre brani privi di titolo, elencati in ordine numerico come se la faccenda non avesse la benchè minima importanza.
Primi indizi per azzardare congetture sul contenuto del primo album dei Buried at Sea, formazione originaria di Chicago.
Pochi minuti d’ascolto ed è facile collocare la loro proposta entro confini precisi. Pensate a nomi come Yob, Eyehategod, Burning Witch, Unearthly Trance, Mass, a tutti quei pesi massimi dello sludge più marcio e devastante che si sono messi in luce negli ultimi tempi, ed avrete le coordinate di questo lavoro.
Un oceano di catrame nero, l’universo dominato da follia e morte, pesantezza che toglie il respiro, abissi dove ogni speranza è ormai svanita, stordimento malato, visioni tossiche, ancora una volta siamo costretti ad entrare in un regno che per vari aspetti è situato oltre il piano musicale.
I Buried at Sea non sono altro che gli ultimi di una lunga serie di profeti apocalittici, capaci di dare un suono ai propri demoni interiori tenendo il corpo immerso nel fango e la mente lanciata nell’infinito cosmico.
Questo è un disco privo di regole e disciplina, si allarga come un fluido che satura e comprime lo spazio. E’ stato diviso arbitrariamente in tre capitoli ma avrebbero potuto essere indifferentemente dieci o magari nessuno, visto che non prevede strutture di riferimento stabili e si snoda liberamente seguendo l’ispirazione istintiva. Per comprenderlo è necessario tuffarsi e galleggiare nel vortice sonoro, facendosi trascinare alla deriva da monolitici riffs ultra-slow, mantra narcotici, atmosfere tombali, schizofrenie space, vocals deliranti, fino a ritrovarsi fuori dal magma con il perverso desiderio di ricominciare da capo.
A che scopo scendere nei dettagli, chi ha sperimentato l’ormai antica estasi punitiva di “Jerusalem” oppure quelle più recenti di “Catharsis” o dei minimalismi drone, possiede una chiara idea di cosa aspettarsi da questo “Migration” e se ama tali sensazioni estreme può subito fiondarsi all’acquisto del disco.
Gli altri invece a questo punto saranno perfettamente coscienti che non è roba per loro, quindi inutile proseguire oltre.

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