Settimo album dopo tre anni di assenza dal mercato discografico per gli
HATE ETERNAL di
Erik Rutan che dopo aver pubblicato "
Infernus" nel 2015 proseguono il loro sodalizio con "
Upon Desolate Sands", un album che continua in maniera pedissequa quanto proposto negli ultimi anni dalla band floridiana, che conferma al basso mister
Hubrovkak, fratello del cantante dei
Monstrosity, e che presenta l'ennesimo cambio di lineup con l'ingresso del teutonico
Hannes Grossmann, già nei
Triptykon ed altre mille formazioni, un mostro più che un batterista.
Erik Rutan, sempre più muscoloso ed ingrugnito, ci presenta la solita ricetta fatta di intensa brutalità, tantissima tecnica, un turbinio di riff che toglie il fiato ma che non è precisamente identificabile, anzi praticamente mai; sebbene ricercati, i riff sono pressochè indistinguibili e vengono sepolti sia dal growl di Erik sia dal furioso drumming di Grossmann, ottenendo un effetto "tappeto" che non giova assolutamente ai brani di "Upon Desolate Sands".
Che, mi rendo conto sembri ironico affermarlo, soffre di un grande problema, ovvero quello della registrazione: malgrado Rutan sia uno stimato produttore ed i suoi
Mana Recording Studios tra i più apprezzati del panorama estremo, non riesco a comprendere la scelta di rendere la distorsione delle chitarre simile a delle "
vuvuzelas", ottenendo un risultato tra il risibile ed il fastidioso, come quando ci guardavamo i mondiali del Sudafrica in televisione e a fare da sottofondo ad ogni singola azione c'erano queste odiosissime e maledette trombette che non ci facevano godere nulla.
Ora il disturbo in questo caso è meno grave ma di certo non giova al risultato finale: Rutan è sempre estremamente versatile e dimostra al solito una classe ed un gusto in fase solistica davvero elevato, alcuni brani più cadenzati come la titletrack che riescono ad essere maggiormente personali portano fieramente il vessillo degli Hate Eternal che furono, ovvero quelli del debutto o di "
I, Monarch", così come "
All Hope Destroyed", un pezzo death metal più old school rispetto agli altri e protagonista di un assolo davvero vincente; la prima parte dell'album è quella più rabbiosa ma anche quella più confusionaria, dalla metà in poi emerge una vena più meditata e malinconica che risolleva ampiamente le sorti, iniziando da "
Portal of Myriad" e culminante nella magnifica strumentale "
For Whom We Have Lost " che suggella una prova alla chitarra dell'ex
Morbid Angel davvero esemplare.
Un roccioso e furioso album di death metal che probabilmente sarà più apprezzato da chi suona uno strumento piu che dai "semplici" ascoltatori: peccato per un inizio non proprio al meglio e per alcuni frangenti del sound un po' troppo avanguardistici per un genere come il death metal. In ogni caso una prova piuttosto lontana dai lavori migliori della band statunitense che, forse, potrà unicamente soddisfare i fan già acquisiti degli
Hate Eternal.