Copertina 5

Info

Anno di uscita:2015
Durata:45 min.
Etichetta:Inverse Records

Tracklist

  1. DEFECTOR
  2. RED SUN
  3. GATES
  4. NERO
  5. LONG LIVE THE NIGHT
  6. LOST SACRIFICE
  7. YOU
  8. AT HEART
  9. LOVE IN BLACK
  10. WORLDS WITHOUT SKIES

Line up

  • Daniel Mitchell: vocals
  • André Marcussen: rhythm guitar
  • Christopher Kassad: bass & lead guitar
  • Dino Cadavian: drums

Voto medio utenti

La sfuggente ricerca dell’originalità costituisce uno dei temi più annosi e dibattuti della storia del metal. La mia opinione sul tema è tanto umile quanto basilare: vi sono album e band da cui è lecito attendersi un modicum di audacia, e contesti in cui, al contrario, sarebbe addirittura folle pretenderne.
Al full d’esordio dei Child of Caesar non chiedevo affatto originalità, ma personalità, quella sì. Purtroppo, nemmeno dopo l’ennesimo ascolto di Love in Black sono riuscito a rinvenirne traccia.

Il combo teutonico -che tuttavia annovera tra le proprie fila l’americano Daniel Mitchell, già singer degli Autumns Eyes- irrompe sul mercato discografico con un prodotto strettamente di genere, avvinghiato con fiera caparbietà ai più stretti canoni gothic così come cristallizzati nella seconda metà degli anni ’90.
Prendete la cupa malinconia dei Tiamat, imbastarditela col ruffiano languore dei The 69 Eyes, aggiungete un gusto melodico a metà strada fra Sentenced e Dreadful Shadows et voilà: il gioco è fatto…

…o quasi: passi l’inevitabile divario qualitativo con le band succitate, passi la mancanza di originalità, ma sulla totale mancanza di personalità dei Nostri, come scritto in premessa, non possiamo davvero soprassedere.
Love in Black è scolastico sin dal titolo, ed ogni sua componente va a dipingere un quadro lungi dall’essere sgradevole, ma altrettanto distante da qualsivoglia crisma di eccellenza. La verità, almeno ai miei occhi, è che ogni aspetto di questa release gronda mediocrità: riffing talmente basilare da risultare involuto, linee vocali di rado ispirate, produzione incolore, brani dalla struttura oltremodo semplicistica che si susseguono fiaccamente, lyrics infarcite dei più triti clichés…

Così, gli spunti d’interesse si possono contare sulle dita della mano di un macellaio cieco: penso alla gradevole doppietta iniziale -buona la strofa della prima e il chorus della seconda-, alla grintosa title track... e mi fermerei qui, ahimè.
In considerazione di ciò, credo che consigliare un disco di maniera e trascurabile come quello in esame, foss’anche agli inguaribili fanatici di certe sonorità, sarebbe quantomeno temerario. Investite altrimenti i Vostri sudati risparmi, fidatevi.

Cari Child of Caesar, il gap che vi separa dalle vette del gothic è ancora notevole. Vi auguro di colmarlo quanto prima.
Nel frattempo, torno ad ascoltarmi gli Hanging Garden.
Recensione a cura di Marco Cafo Caforio

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