Copertina 6,5

Info

Genere:Black Metal
Anno di uscita:2013
Durata:58 min.
Etichetta:Lifeforce Records

Tracklist

  1. MONUMENT
  2. JUST ANOTHER WAY OF EXPRESSING DEFEAT
  3. THE KING IS DEAD
  4. MY TRANSPARENT HEART
  5. TODAY, THE SEA (ANJA’S SONG)
  6. DELETING THOSE THREE WORDS
  7. ETERNAL YOUTH
  8. SEVEN DEAD HORSES
  9. SILENCE IS EVERYTHING
  10. FOREST PT. I (THE VEIL)
  11. FOREST PT. II (THE GROVE)
  12. THIS STORY OF PERMANENCE
  13. THE ELK

Line up

  • Nathanael - Music (Songwriting, Lyrics, additional Vocals, Live-Bass)
  • Nils - Vocals
  • Flo & Max - Guitars
  • Emanuel - Drums

Voto medio utenti

Le etichette che man a mano s’inventano e s’affibbiano ai gruppi, nate un po’ per auto-genesi, un po’ per necessità o vezzo della stampa di settore, rischiano spesso e volentieri di recare più danni che apporti utili al proprio scopo.
Non solo, infatti, è quantomeno sterile e sminuente incollare ad un gruppo il nome di un fantomatico genere che, nottetempo, è spuntato come un fungo, ma, rischio ancor peggiore, c’è la concreta possibilità che anche solo vedere tale associazione possa provocare in un eventuale ascoltatore attese, aspettative e anche una certa rassegnazione, quasi a dire che ormai tutto si sta appiattendo e uniformando.
È il caso del termine “post”, prefisso quantomai abusato e spesso inteso in modo decisamente vacuo o nei migliori dei casi generico, entrato in voga di questi anni grazie ad artisti davvero innovativi e rivoluzionari del calibro di Mogwai, Sigur Ros, God Is An Astronaut, giusto per citarne alcuni in ambito “rock non troppo pesante”. L’elenco potrebbe poi ovviamente continuare a lungo e spaziare in territori ben più estremi e contaminati, laddove gente come Isis, Cult Of Luna, Pelican e chi più ne ha più ne metta hanno realizzato lavori eccezionali e memorabili, che hanno davvero scosso le fondamenta di generi ormai consolidati da decenni.
Cosa accomuna questi nomi e coloro i quali li hanno seguiti, imitati con maggiore o minore successo e cosa ha reso il “post-vediunpo’tuchecivuoimetteredopo” quello che, volenti o nolenti, ormai ci immaginiamo appena sentiamo nominare il termine? Fondamentalmente uno stile compositivo più o meno diverso da artista ad artista, ma che fa capo, sempre e comunque ad alcuni concetti ricorrenti, come il rifiuto della canonica forma-canzone in favore di uno sviluppo più progressivo e simile ad un “flusso di coscienza” musicale, il ricorso a masse sonore d’impatto piuttosto che melodie (o anti-melodie), un uso minimalista o il rifiuto delle linee vocali, atmosfere tendenzialmente introverse, rarefatte, sognanti. Questo per elencare le dovute ovvietà, poi, chiaramente, a ciascun gruppo e a ciascun artista, si può far risalire uno stile peculiare.
Il problema fondamentale è che, alla lunga, l’esplosione della tendenza a chiamare “post” qualunque cosa che anche solo vagamente suonasse un po’ come poc’anzi descritto, ha prodotto delle aberrazioni notevoli, andando ad abusare in maniera sistematica del termine e di un genere che, in fin dei conti, non esiste neppure in maniera precisa.
Un’invenzione andata male quindi e ulteriormente inaridita da un appiattimento volontario del concetto.
The Elk cade, suo malgrado, in questa trappola semantica e concettuale, venendo promosso ora come post metal, post black, post qual che vuoi, ma, di fatto, risultando null’altro che un onesto album che presenta parti ambient, sezioni strumentali di chitarra pulita, parti più tirate e distorte intessute su una ritmica tipicamente metal con tanto di doppia cassa (piccola nota personale: la drum machine su questa musica ci sta come i cavoli a merenda, ma vabé, son gusti) e voce scream/growl. Le canzoni sono piacevoli, orecchiabili, relativamente semplici e costituite per lo più da introduzioni acustiche che poi sfociano in situazioni più massicce e distorte, risultando, alla lunga, sufficientemente curate ma anche un po’ noiose.
Manca un guizzo di genio, qualcosa che effettivamente possa far ricordare un determinato brano piuttosto che un altro e l’ora di durata complessiva dell’album non aiuta nel processo, specialmente se si coniuga questo alla scarsa varietà dei pezzi; si procede in maniera abbastanza uniforme, senza mai esagerare, ora con un fraseggio col delay, ora con un campione di voce in lo-fi, ora con un arpeggio pulito o una tirata metal che va a ricordare alcune cose fatte dai Moonspell e dai Rotting Christ degli anni 90 nel loro periodo più dark-gothic.
L’onestà, tutto sommato, c’è eccome; la proposta di per sé non è neppure malvagia, ma la sensazione di aver voluto “sparare” alto con l’hype e di aver voluto etichettare un prodotto come qualcosa che non è giusto per buttarlo nella mischia è più che concreta.
Recensione a cura di Antonio Enoth Cassella

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